di Banca Popolare Etica
Lo scorso 22 novembre, 4 medie banche italiane (CariFerrara, Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti) sono state oggetto del cosiddetto decreto salvabanche varato dal Consiglio dei Ministri in una straordinaria riunione domenicale. Lo stesso Governo che solo qualche giorno prima aveva emanato la normativa di attuazione – con decorrenza dal 1 gennaio prossimo – della direttiva europea nota per il bail in e che prevede che il denaro per i salvataggi sia messo a disposizione dai soci e dai creditori della banca in crisi.
Fino a poco tempo fa il salvataggio di queste banche avrebbe comportato un intervento con fondi pubblici (c.d. bail out), come è avvenuto in moti paesi europei a ridosso della crisi del 2007, oppure operazioni di fusione con soggetti in buona salute sulla scia della politica per lungo tempo adottata da Banca d’Italia. Oggi – in linea con i nuovi principi europei – non si utilizzano più risorse pubbliche per il mantenimento “forzoso” sul mercato di soggetti in crisi.
Il Governo Italiano ha deciso di fare una corsa contro il tempo per derogare alla direttiva sul bail-in, che implicherebbe – per le banche non sistemiche come le 4 in questione – il pagamento tutto a carico di clienti e creditori della stessa banca. E ha deciso che il conto debba essere pagato da tutte le banche italiane. Anche quelle virtuose, anche quelle non profit, anche quelle che lottano per restare coerenti con la mission di sostenere l’economia reale e sostenibile mantenendo in equilibrio i propri bilanci senza alcun aiuto pubblico.
Il decreto salva-banche ha scelto di concedere alle 4 banche- in default a causa di una gestione opaca – di utilizzare il “fondo di risoluzione”: un fondo in costituzione ai sensi della Direttiva Europea sui salvataggi bancari atto a garantire un atterraggio soft di banche “sistemiche” con l’obiettivo di evitare rischi di contagio. A queste 4 banche italiane medio-piccole è stato concesso di utilizzare questo fondo, pur non avendone “probabilmente” i requisiti secondo la logica della Direttiva in parola, per il semplice fatto che tale normativa verrà recepita in Italia a far data dal 1 gennaio prossimo.
A fronte di questa scelta del Governo si richiede al sistema bancario – inclusa la finanza etica – un contributo al costituendo fondo di risoluzione di molto superiore a quanto previsto. Nello specifico, per quanto riguarda Banca Etica, era stato preventivato e comunicato un contributo di 130 mila euro per il 2015 e identica cifra per il 2016. Ora – a seguito del decreto salva-banche- ne sarà richiesto uno molto più oneroso che potrebbe superare i 500 mila euro nel 2015 e sfiorare i 400 mila nel 2016. Sono cifre importanti che sottraggono risorse allo sviluppo sostenibile e all’economia sociale a cui Banca Etica fa credito, perché, essendo banca non profit, ogni euro di utile che viene sottratto per salvare altre banche rappresenta 12 euro in meno di credito erogabile.
Ancora una volta la regolamentazione penalizza la finanza etica, che da tempo annunciava i problemi del sistema finanziario e che durante la crisi è stata sempre in controtendenza: mentre le grandi banche contraevano sempre più il credito all’economia reale, Banca Etica ha mantenuto importanti tassi di crescita nei finanziamenti erogati a favore di famiglie e imprese sociali. Erogazioni che ora potremmo essere costretti a ridurre a causa dei contributi che ci vengono richiesti per salvare banche mal gestite. E nel colpire la finanza etica si colpisce quella parte di paese che continua a lavorare quotidianamente per lo sviluppo sostenibile e la solidarietà.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Banca Popolare Etica il 30 novembre 2015