Parigi, Europa, dopo il massacro del 13 novembre

26 Novembre 2015 /

Condividi su

I fatti di Parigi
I fatti di Parigi
di Amina Crisma
Parigi, Europa. Place de la République, un anno fa
A fine dicembre di un anno fa, chi passava per Place de la République poteva vedere, poco distante dal grande monumento, una piccola giostra, manège gratuit, una di quelle che la municipalità di Parigi mette a disposizione dei bambini durante le feste di Natale, e intorno una folla multicolore – di genitori e figli, di nonni e nipoti – un caleidoscopio di parigini della più varia ascendenza, senegalese, maghrebina, vietnamita, cinese, askenazita, sefardita, rumena, tailandese e quant’altro, tutti ugualmente presi dalla serietà del gioco, tutti insieme a godersi il lusso imprevisto di uno sprazzo di sole invernale. Tutti insieme offrivano ai passanti una scena di quello straordinario spettacolo che è la vita quotidiana della città e della sua gente.
Di tante cose diverse che è, e delle quali ciascuno ha il suo personale catalogo, Paris tel qu’on l’aime credo sia soprattutto momenti e spazi come questo, in cui la grande metropoli si fa festa paesana, scena condivisa di vita familiare, pluralità cordiale e corale.
Soltanto pochi giorni dopo, dopo il 7 gennaio, la semplice normalità di quella piccola scena sembrava appartenere a un racconto d’altri tempi, a una favola diventata ormai irreparabilmente lontana. A poca distanza, la strage nella redazione di Charlie Hebdo, e poi nella strada Ahmed massacrato, e poi ancora strage a Porte de Vincennes nel negozio kosher. A colpi di kalashnikov si faceva fuoco sugli inermi.

Così cominciava per la città, per la sua gente, e anche per tutti noi, un’altra storia. E la piazza diventava il luogo del lutto collettivo. Nella manifestazione dell’11 gennaio si poteva intravedere ancora, in mezzo alla grande folla, la piccola giostra diventata ormai minuscola, come un giocattolo travolto da un uragano. La si guardava come si guardano i giocattoli appartenuti ai bambini rastrellati nella rafle du vél d’Hiv del 1942. Come si guardava il pianoforte che c’era nella casa di Meudon della mia amica Janine Cahen, appartenuto a suo cugino finito ad Auschwitz.
Ieri come oggi, c’è la fragilità inerme delle creature viventi di fronte alla proterva prepotenza degli assassini che vogliono soffocare voci, risate, canzoni, per far sentire soltanto il rumore delle loro armi, il loro chiassoso sbraitare. La vita inerme si scopre “tremante come un bambino al buio”, come dice dell’amore un verso di Jacques Prévert.
Sed non prevalebunt… ma la fragilità inerme delle creature viventi il giorno dopo la bufera di nuovo rispunta, viene fuori dalle macerie, riprende e piano piano ricomincia.
Esile come un filo d’erba, rispunta nella città pietrificata. Altrettanto forte e tenace della morte e dell’inferno. È un pianoforte che uno sconosciuto suonatore ha portato, il 14 novembre, il giorno dopo il massacro, davanti al Bataclan, e senza dire una parola si è messo a suonare. Dopo la devastazione, la città ha ricominciato, sottovoce, da una canzone.
Oggi, dopo il 13 novembre
Oggi, dopo il massacro del 13 novembre, come i bambini vittime del rastrellamento della rafle du vel d’Hiv del ‘42, i bambini di Parigi hanno scoperto, con la nitidezza che solo i bambini sanno avere, che attorno c’è il buio, un buio minaccioso. Hanno scoperto che “il y a les méchants”, come ha detto uno di loro, davanti ai fiori e alle candele di place de la République, in una conversazione con suo padre raccolta dalla pagina Facebook di Le Petit Journal e universalmente rilanciata in rete.
Come un anno fa, e ancor più di allora, prima di ogni discorso e ogni ragionamento, c’è il senso dell’intollerabilità di quel buio, dell’ insostenibilità di quel male che abbiamo davanti agli occhi. C’è uno sgomento che si rifiuta di farsi tacitare dalle razionalizzazioni. C’è un eccesso in quella tenebra che non si lascia ricomporre in un’ordinata rappresentazione. C’è una dismisura che resta tremendamente opaca, che sfugge alla comprensione: è la tremenda sproporzione fra la tracotante potenza di fuoco messa in campo degli assassini e le inermi creature umane, le inermi creature viventi di fronte a loro che sono diventate le loro vittime. C’è la smisurata aggressione che si è scatenata contro i semplici e inermi e sacri gesti di cui è fatta la vita: il mangiare e il bere insieme, il ridere e il cantare, il camminare per strada insieme di figli e genitori, di amici e di morosi, quelle semplici e inermi cose di cui è fatta la semplice e inerme condivisione della bellezza del vivere.
Gli assassini possono ammantarsi finché vogliono di ostentati panni bigotti, è quello che fanno che smaschera per quella che è la sostanza unica e sola del loro credo: il loro solo credo, osceno e blasfemo, è la morte. Come aveva denunciato con forza, con limpidissime parole, già un anno fa l’imam di Drancy.
Certo, si è visto altre volte e in altri luoghi questo opaco disprezzo per tutto ciò che è diverso dalla sua tenebra, che non coincide con l’odiosa disumanità di cui esso si fa orrido banditore. Ma non per questo smette di essere uno scandalo insopportabile, questa volta come tutte le altre volte in cui si è manifestato e si manifesterà.
Da tanti luoghi dell’Islam si levano in migliaia a condannarne l’atrocità, a dichiararne la falsità, a smascherarne l’ipocrisia, a opporsi: “Pas en mon nom, not in my name” quest’orrore si compie, essi dicono. Dalla grande moschea di Parigi ai bambini di Gaza, ai musulmani italiani che oggi all’insegna del “non in mio nome” scendono in piazza, essi denunciano l’empia profanazione dell’autentica e vera religio che tutti ci accomuna: il vincolo solidale e fraterno che sotto il Cielo lega fra loro le creature umane.
Sullo sfondo: una duplice crisi, dell’Islam e dell’Europa
Detto questo, di tanto altro ancora c’è bisogno. Oggi più che mai, c’è bisogno di una riflessione capace di distinguere, e capace di farsi discorso condiviso con i nostri frères humains.
Oggi occorre fare appello a tutta la capacità di discernimento di cui siamo capaci. Innanzitutto, certo, occorre respingere con forza le roboanti generalizzazioni, gli slogan clamorosi di cui si pasce la retorica populista della destra, che favoleggia di un Islam monolitico come Grande e Sempiterno Nemico, e mette in scena il trito teatrino dello Scontro di Civiltà, e proprio così favorisce lo sviluppo di reazioni vittimistiche e di dinamiche regressive all’interno di quella pluralità irriducibile, polifonica e discorde che è l’universo musulmano à l’ouest d’Allah, innescando una spirale perversa che rischia di alimentare al suo interno le tentazioni peggiori: la bigotteria fondamentalista, il ricompattamento regressivo, la chiusura ostile. Proprio quello che vogliono i lucidi strateghi del terrorismo fascista di Daesh, di cui non va mai dimenticato che le prime e numerose vittime, nei tanti teatri del terrore globale, sono musulmane.
Ci vorrebbe oggi la lucidità di uno sguardo capace di uscire da una prospettiva ossessivamente eurocentrica. Il vieto schema che oppone the West and the Rest occulta la tragica realtà di una spaccatura profonda che non da ora soltanto attraversa l’universo dell’Islam, e che ha fra l’altro significato (ce lo siamo scordato?) un milione di morti, fra il 1980 e il 1988, nella guerra fra Iraq e Iran. L’affrontarsi fra sciiti e sunniti, paragonabile alle guerre di religione che hanno straziato l’Europa cristiana nel Seicento, è indubbiamente parte cospicua della mortifera malattia di cui il totalitarismo di Daesh è la tremenda metastasi.
Se l’esistenza di Daesh assomiglia oggi più che mai a un incubo mostruoso, va ricordato sempre che alla sua gestazione hanno contribuito in molti, e alla sua persistenza continuano ad essere interessati in troppi. Non si può in particolare dimenticare che Daesh è, specificamente, il frutto avvelenato della distruzione della compagine statale dell’Iraq, ossia è il risultato precisamente di quella guerra intrapresa da George W. Bush il cui proposito dichiarato era il riassetto e la stabilizzazione del Medio Oriente, e che ha invece gettato nelle braccia del jihad leadership e quadri del distrutto Baath iracheno: davvero un capolavoro di lungimiranza strategica, che ha poi trovato nel 2011 il suo complemento nell’intervento militare in Libia, diventata quell’incontrollabile deflagrazione che è sotto gli occhi di tutti.
Ma le radici del jihadismo non rinviano solamente a queste specifiche vicende e ai loro esiti disastrosi. A livello più profondo, esse si inscrivono, come da tempo sostiene, ad esempio, Malik Bezouh, autore di France-Islam: le choc des préjugés (2015), [1] in una duplice crisi: da una parte, nella crisi del mondo arabo-musulmano, ossia in quella “infelicità araba” che già dieci anni fa fu lucidamente diagnosticata da Samir Kassir, assassinato a Beirut nel 2005, in un libro memorabile che converrebbe oggi rileggere (Considérations sur le malheur arabe, 2004), [2] dall’altra, in una crisi dell’Occidente. Il mondo arabo-musulmano nel suo insieme vive una drammatica impasse a cui non sono certo estranei la repressione e l’imbavagliamento della società civile attuati nella maggior parte degli stati islamici, e tale impasse si riverbera ovunque in spiccate tendenze al conservatorismo, al ripiegamento vittimistico, alla chiusura comunitaria, all’intransigenza fondamentalistica, mentre invece una parte coraggiosa e significativa della sua intellighenzia rilancia l’esigenza profonda di un’autocritica e di una riforma dell’Islam, che finalmente si confronti dialetticamente con il grande nodo irrisolto della laicità e della secolarizzazione. Nonostante vi siano molteplici manifesti e documenti di questo Islam riformatore (ne abbiamo tradotto e pubblicato alcuni su Inchiesta lo scorso gennaio), esso viene ben poco divulgato, appoggiato e sostenuto in Occidente, e curiosamente continua ad essere pressoché totalmente ignorato dai media del nostro Paese, sempre così pronti a raccogliere, rilanciare e amplificare qualsiasi esternazione populista o integralista. [3]
Un’eloquente, limpida e appassionata espressione di tale istanza riformatrice è, ad esempio, la Lettera aperta al mondo musulmano pubblicata un anno fa da Abdennour Bidar (Lettre ouverte au monde musulman, 15 ottobre 2014) [4] e riproposta in questi giorni all’attenzione. Eccone alcuni passaggi salienti:

“Il mondo islamico si rifugia nel riflesso dell’autodifesa senza assumersi la responsabilità dell’autocritica. Non basta l’indignazione rispetto al terrorismo: occorre che l’Islam colga in questo momento storico la formidabile occasione di rimettersi in questione. In realtà dietro l’immagine del mostro si nasconde un immenso problema, quello delle radici del male, che sono in lui stesso (…). C’è nell’Islam una moltitudine di donne e uomini che sono pronti a riformare l’Islam. Essi hanno ben compreso che le nascite di Al Qaida, dell’AQMI (Al-Qaida nel Maghreb islamico, n.d.T.) o dello “Stato Islamico” non sono che i sintomi più gravi e visibili su un immenso corpo malato, le cui malattie croniche sono: l’incapacità di istituire democrazie durature che riconoscano come diritto morale e politico la libertà di coscienza nei confronti della religione; la prigionia morale e sociale entro una religione dogmatica e talora totalitaria; la difficoltà cronica a migliorare la condizione femminile nel senso dell’uguaglianza, della responsabilità e della libertà; l’incapacità di separare adeguatamente il potere politico dall’autorità della religione; l’incapacità di istituire rispetto, tolleranza e riconoscimento del pluralismo religioso”.

Speculare rispetto alla crisi dell’Islam di fronte al nodo irrisolto dell’esigenza di un progetto riformatore, vi è la crisi dell’Europa: una crisi della cui entità e profondità non sembra esservi un’adeguata percezione nel dibattito pubblico e nella coscienza collettiva. Che la centrale degli attacchi terroristici a Parigi fosse a Bruxelles, a poca distanza dalle sedi istituzionali della UE, appare una circostanza quanto mai significativa: un segno di debolezza inquietante, che non è certo riferibile unicamente all’ambito del controllo del territorio o a quello dell’efficienza degli apparati di sicurezza e di intelligence.
Si può ricorrere, mi sembra, alla lucida diagnosi formulata da Paolo Prodi in Homo europaeus (agosto 2015) per evocare nella sua adeguata misura e nella sua effettiva proporzione l’entità e la profondità della crisi che attraversa l’Europa. [5] Lungi dall’essere definibile in termini meramente economici o geopolitici, essa si configura come una svolta antropologica che intacca alla radice e svuota di senso la sostanza stessa delle nostre democrazie:

“La globalizzazione, come fenomeno complesso, che non si limita certamente a una diversa dimensione dei mercati, ha posto in crisi tutto l’assetto dialettico e l’equilibrio tradizionale fra i poteri (il sacro, il politico, l’economico) con una supremazia assoluta di un potere che è a un tempo sacrale, economico e politico.” [6]

“L’aggravarsi attuale della crisi delle nostre democrazie di fronte alle nuove sovranità finanziarie sopranazionali, nelle quali potere sacrale, potere politico e potere economico sono di nuovo fusi, ci sta portando a un punto di non ritorno che rende necessario un nuovo patto politico per la salvezza delle nostre libertà.” [7]
Il saggio di Paolo Prodi è uscito in agosto, ma la sua conclusione mi sembra ben si presti a definire in termini pregnanti la nostra attuale situazione, successiva al 13 novembre:
“Paradossalmente – ma non troppo per chi ha coscienza storica – soltanto dalla coscienza di un pericolo che minaccia il centro stesso della nostra vita e non soltanto il nostro benessere può nascere un nuovo patto politico, un patto cioè che ci possa permettere una nuova alleanza”. [8]
Credo che la risposta più efficace al terrorismo fascista di Daesh possa provenire solamente da questo genere di consapevolezza, e dal compito che essa configura: la costruzione di un’identità politica collettiva in grado di restituire all’Europa la sua anima, ossia di ridare corpo autentico alla democrazia, di restituire concretezza e densità a parole quali liberté, egalité, fraternité, di rilanciare la tensione progettuale e trasformatrice che vi è implicata, di essere spazio ospitale e condiviso di pluralità e di un bel vivere da cittadini, di essere luogo di emancipazione per tutte e tutti. Insomma, ci vuole un’Europa che torni a essere capace di pensare e progettare altro rispetto all’esistente, ossia a un orizzonte prono ai diktat della finanza e del mercato.
Ma dov’è il soggetto politico che possa e voglia farsene carico?
NOTE

  • [1] Malik Bezouh, France-Islam: le choc des préjugés, Plon, Paris 2015.
  • [2] Samir Kassir, L’infelicità araba, Einaudi, Torino 2006.
  • [3] Cfr. il Dossier a cura di Amina Crisma “Charlie Hebdo e dintorni”, Inchiesta, anno 45, n. 187, gennaio/marzo 2015, pp. 72-96, in cui sono riprodotti fra l’altro il Manifesto per la laicità del 2004 e il Manifesto per una riforma dell’Islam di donne e uomini di cultura musulmana del 2015.
  • [4] Abdennour Bidar, Lettre ouverte au monde musulman, 15 ottobre 2014, Huffington Post Québec (trad. di Amina Crisma).
  • [5] Paolo Prodi, Homo europaeus, Il Mulino, Bologna 2015.
  • [6] Ivi, p. 29.
  • [7] Ivi, p. 228.
  • [8] Ibidem.

Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 23 novembre 2015

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati