Dal lavoro ai lavori, dai lavori al lavoro?

9 Ottobre 2015 /

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di Tiziano Rinaldini
Le ricorrenti crisi interne al sistema che si è via via affermato nel mondo negli ultimi decenni dello scorso secolo hanno portato ad intensificare analisi e tentativi di ricostruirne origini e natura. Per chi sia interessato a leggere le dinamiche del capitalismo anche fondamentalmente come processi da leggere in funzione della ricerca da parte del capitale delle condizioni migliori possibili di dominio sul lavoro, si è così favorita la possibilità, ancora poco utilizzata, di sviluppare una conoscenza politica (una politica materialisticamente intesa) sul mondo attuale. Mi riferisco in particolare a quanto accaduto negli anni ’70; una fase decisiva nel gettare le basi della restaurazione capitalistica e nel delineare gli obiettivi di fatto perseguiti e le ragioni di fondo del successo e della sconfitta.
Si tratta del successo della restaurazione, della sconfitta e dell’esaurimento della tendenza che si era affermata soprattutto nel secondo dopoguerra in molti paesi europei e nel mondo che, pur nelle notevoli differenze tra i vari paesi, presentava alcuni fondamentali tratti in comune: regole generali che, a partire da alti tassi di occupazione, introducevano importanti garanzie sociali universalistiche; espansione dei diritti, di quelli sociali in particolare; in alcuni casi tentativi di democrazia economica; un buon livello di giustizia redistributiva; riconoscimento o accettazione di un ruolo forte del sindacato e della contrattazione collettiva generale. Alla base dell’affermarsi di questa tendenza, prevalentemente e diversamente da quanto ritenuto dai più, non sta tanto il movimento operaio riformista, ma piuttosto pensatori e politici borghesi, tutt’altro che interni al movimento operaio, che interpretarono la necessità di un cambiamento di democratizzazione nei rapporti con il lavoro che evitasse conseguenze di estrema radicalizzazione sociale e politica.

Il timore era ovviamente fondato per la consistenza della forza messa in campo dai lavoratori e dal movimento operaio soprattutto in Europa, e per la consapevolezza che non si poteva pensare di farvi fronte consegnandosi ad una destra incontrollabile. Il punto da salvaguardare e da proteggere fu la riconferma del valore oggettivo e indiscutibile del potere del capitale sull’esercizio del lavoro. Sulla sua organizzazione e finalità. Il sindacato era chiamato a rispettare questo limite, o perché condiviso o perché il superamento del limite era rinviato al potere politico “rivoluzionario”.
Lo stato nazionale fu il contenitore decisivo nella realizzazione di quanto prima tratteggiato.
Vorrei fosse colta l’importanza di questi connotati e quindi riconoscere il grande valore della novità che si realizzò nel rapporto tra capitale e lavoro, insieme però al limite da non oltrepassare e alla chiusura di questo rapporto in una dimensione statuale nazionale. In sostanza l’internazionalizzazione del movimento operaio (e cioè la sua ispirazione originaria) si ridusse così progressivamente più ad un richiamo retorico che ad una pratica conseguente. Peraltro su questo punto si confermò e si stabilizzò un dato già emerso con forza nelle vicende storiche precedenti sia nella esperienza sovietica che in quella delle democrazie occidentali.
Si entrò così negli anni ’70, mentre già negli anni ’60 in modo molto diffuso erano emersi movimenti, culture ed esperienze (spesso al di fuori delle ortodossie sindacali e politiche) che ponevano problemi di radicale democratizzazione dal basso, di affermazione di potere all’interno del lavoro, di ulteriori avanzamenti sociali e nei diritti. Andavano quindi oltre (qualitativamente oltre che quantitativamente) il “patto” riformista e borghese “illuminato”, né si risolvevano in un rinvio extrasindacale a quando sarebbe stato superato il capitalismo. Tra l’altro mentre veniva così criticata e scossa dall’interno la fabbrica fordista (struttura centrale di quella fase capitalistica), all’esterno, in particolare nelle Università, si diffondevano estese esperienze che premevano per fuoriuscire dagli argini, preannunciando nuove tematiche di opposizione, dalla questione ambientale a quella sessuale e di genere, a quella delle lotte di liberazione.
Tutto ciò avveniva quasi ovunque, compreso gli Stati Uniti, che pure erano portatori di un modello radicalmente diverso rispetto agli equilibri che si erano affermati in Europa nel rapporto tra capitale e lavoro. Un modello fondato sul privilegio del mercato e un modello autoritario nelle relazioni tra capitale e lavoro, centrato sul riconoscimento preventivo dell’indiscutibile primato dell’interesse del capitale nell’impresa e nella società e della sua libertà. Per ricordare i tratti più significativi, negli Stati Uniti su fondamentali bisogni sociali le scelte non furono di carattere universalistico e di stato sociale, ma di carattere individuale, assicurativo o aziendalistico, con forme di assistenzialismo e di beneficenza per gli esclusi. Questo si congiungeva con una drastica delimitazione del ruolo della contrattazione collettiva e dell’azione sindacale a cui era inibita (qualora superasse le barriere per essere consentita) qualsiasi logica che non fosse di carattere aziendale.
Il problema si era fondamentalmente definito negli anni’30 con la sconfitta e la durissima repressione dell’idea di sindacato industriale all’europea con ambizioni generali, nel contempo riconoscendo esclusivamente (a certe condizioni) uno spazio contrattuale di stampo aziendale. Gli USA ciò non di meno furono molto importanti nel tollerare e per certi versi di fatto favorire l’equilibrio europeo prima richiamato. In questo senso si collocò il piano Marshall. Nel contempo all’interno del loro diverso modello accentuarono la soglia dell’attenzione su una maggiore giustizia redistributiva, su una politica di alti salari, sui problemi sociali e sulle politiche fiscali. In questo quadro gli Stati Uniti erano comunque considerati centrali nel mondo occidentale, protagonisti primari nel definire le basi su cui si fondava il primato del capitale.
Non potevano quindi che essere avvertite, innanzitutto da loro, le crepe che si stavano determinando nell’equilibrio capitalistico post bellico e gli inquietanti rischi degli sviluppi che si potevano determinare. Si poneva quindi l’esigenza di un riequilibrio che riaffermasse un pieno dominio del capitale e la perdita di peso del lavoro, consolidando in questo per gli USA una indiscutibile centralità. E’ qui che si collocò una delle ragioni fondamentali che ci permette di cogliere il significato del passaggi degli anni ’70, con scelte che più o meno consapevolmente perseguirono modifiche strutturali dell’equilibrio pro-labour, ponendo il modello americano come il modello da radicalizzare (negli stessi Stati Uniti) e da estendere ovunque possibile nel mondo. Importanti esponenti del mondo economico, politico e del pensiero economico si collegarono tra di loro con questo obiettivo. Un esempio fu la Trilaterale così come le crescenti fortune dei Chicago boys. Recenti ricostruzioni e riflessioni tracciano i passaggi (scelte e fatti) di quel periodo con cui furono minate le basi del quadro descritto. Particolarmente chiari a noi sono parsi , tra gli altri, recenti contributi di Ruffolo e Sylos Labini [1].
Nel 1970 la situazione debitoria degli USA era pesantissima ed i paesi europei, grandi creditori, chiedevano di essere pagati in oro e non con una moneta (il dollaro) sempre più svalutata. Con Bretton Woods ciò era possibile. Nixon, di punto in bianco, nel volgere di una notte, denunciò Bretton Woods, decise l’inconvertibilità del dollaro in oro, rendendo il dollaro (svalutato) l’unica risorsa per i creditori. Pochi anni dopo (1973) a fronte della crisi petrolifera, Paul Volcker, presidente della Banca Centrale, decise una pesante stretta creditizia scegliendo la recessione contro i rischi di inflazione. Si contribuì così a determinare una crisi dei livelli occupazionali, che portò a rimettere in campo un esteso esercito di riserva, facendo venir meno una delle condizioni essenziali dell’equilibrio precedente. Infine con la chiusura del decennio, Reagan (e Thatcher) aprirono la strada alla libera circolazione dei capitali nel mondo, mettendo così le basi della globalizzazione finanziaria dell’economia. La finanziarizzazione usufruì successivamente del contributo di grande importanza di Clinton e Blair.
Non ritengo che a quel punto tutto fosse scontato rispetto a ciò che è poi accaduto nella devastazione e umiliazione del lavoro. Si erano semplicemente costruite le condizioni più favorevoli per la messa fuori campo della forza dei lavoratori e rendere così possibile ristrutturare e riorganizzare i processi produttivi in modo unicamente rispondente agli interessi del capitale e al suo punto di vista. Una ricostruzione e ristrutturazione che evitasse caratteristiche che potessero favorire il rideterminarsi delle condizioni precedenti nella dialettica capitale/ lavoro. I processi di innovazione tecnologica e organizzativa, (considerati spesso come le cause “oggettive” della sconfitta) vennero in realtà attuate (in tempi diversi nei vari paesi) dopo aver sconfitto la forza operaia.
L’utilizzo e lo sviluppo delle nuove tecnologie e lo studio e l’applicazione di nuove competenze organizzative, dovevano potersi realizzare senza interferenze di un punto di vista autonomo del lavoro e consolidando la riduzione del lavoro (dei lavoratori) ad un fattore della macchina capitalistica, la cosiddetta risorsa umana. Altro che soggetto! Ciò che impressiona è, da un lato la linearità del processo nel rapporto tra le varie fasi e dall’altro la debolezza e incomprensione della sinistra, di gran parte dei sindacati e del pensiero democratico nell’avvertire che veniva colpita al cuore. E’ sufficiente richiamare alcuni dei principali connotati delle modifiche che avvennero nella macchina produttiva e nel contesto capitalista per capire l’obiettivo perseguito: fare saltare le condizioni che avevano consentito ai lavoratori di costruire all’interno di vari paesi notevoli rapporti di forza con conseguenti importanti e crescenti conquiste.
Nel rinviare a studi e saggi [2] che anche recentemente hanno descritto e analizzato questi cambiamenti, mi limito a richiamare alcune coordinate centrali facendole precedere da una considerazione di ordine generale, che ci aiuta a capire i varchi attraverso cui viene favorita la penetrazione della restaurazione.
Mi riferisco (con la finanziarizzazione e la possibilità della delocalizzazione) allo spostamento a livello internazionale del quadro su cui organizzare lo sfruttamento del lavoro, mentre era già caduta la credibilità delle costruzioni politiche ispirate da ideologie di alternativa al capitalismo. Queste costruzioni per una lunga fase parevano praticabili e praticate; consentivano quindi alle lotte sociali di far leva su di esse per dare respiro e coltivare speranze che andavano oltre le specifiche lotte in atto ed i loro esiti (di successo o di sconfitta) momentanei. Ricostruito così il quadro in cui si collocano, ritorniamo ad alcune delle condizioni centrali che si determinano con la ristrutturazione e riorganizzazione attuata.

  • a) L’impresa molto spesso teneva dentro lo stesso luogo con la stessa titolarità le varie attività del ciclo del prodotto, e anche quelle laterali. Questo insieme viene destrutturato e frammentato con decisivi punti di controllo, definizione e governo centrale.
  • b) Le varie fasi in misura crescente vengono esternalizzate in altre imprese di diversa titolarità (anche quando restano svolte nello stesso luogo) o delocalizzate in altri paesi o territori (o restando della stessa impresa o in altre imprese, anche appositamente costruite).

Lungi dall’essere un processo di decentramento e diffusione dei livelli di potere; il sistema che si è venuto strutturando viene giustamente definito di straordinaria concentrazione senza centralizzazione, o anche viceversa di centralizzazione senza concentrazione. [2]
Ne risulta la evidente estrema difficoltà che deriva per la tradizionale contrattazione collettiva aziendale, con l’indebolimento o vero e proprio svuotamento della sua credibilità agli occhi dei lavoratori come strumento da loro utilizzabile per consentire di contare nel confronto/conflitto con il potere che determina le scelte sulla loro condizione. Tra l’altro il padrone nella struttura descritta ha buon gioco nel cercare di declinare le proprie responsabilità e presentare le proprie decisioni come obbligate e non discutibili. La contrattazione aziendale che residua, quand’anche tentata, è sempre più sospinta ad un ruolo di semplice accompagnamento comunque subalterno, al punto tale che a me pare sempre più spesso priva di significato definirla contrattazione.
Solidarietà e giustizia sociale (i valori fondanti l’associarsi dei lavoratori) rischiano di apparire fuori dalla possibilità di tradursi in una pratica coerente nell’azione dei lavoratori e delle lavoratrici nei luoghi di lavoro. Senza dubbio i tentativi di contrattazione articolata, ricercando anche ambiti nuovi di riferimento come la filiera o rapporti tra imprese dello stesso gruppo in paesi diversi, è uno dei terreni per tentare recuperi di credibilità.
A me però pare evidente che non sia credibile se contemporaneamente non si è in grado di fare i conti con il secondo terreno di cambiamento finalizzato ad una duratura riaffermazione del potere del capitale sul lavoro.
Si tratta del venire a meno di quelle certezze orizzontali e trasversali che nel caso più significativo con i contratti nazionali di lavoro dell’industria stabilivano per gran parte dei lavoratori vincoli a cui le singole imprese dovevano attenersi nei confronti dei propri dipendenti sugli orari, sui salari, sulle regole di disciplina, sulle qualifiche, su come affrontare crisi e ridimensionamenti e via elencando. L’impresa , tutte le imprese sapevano che, nell’affrontare propri specifici e particolari problemi dovevano partire da vincoli (non generici riferimenti) definiti nel contratto nazionale che riducevano la possibilità che la concorrenza fra le imprese fosse scaricata sui lavoratori.
I lavoratori sapevano a loro volta che il contratto nazionale costituiva la base di una solidarietà generale, che li tutelava da derive aziendalistiche e corporative e li rendeva meno ricattabili nelle diverse situazioni aziendali. La contrattazione articolata si trovava così nelle condizioni migliori per sviluppare il confronto tra il punto di vista dell’impresa e quello dei lavoratori sulle specifiche diverse situazioni lavorative e sulle scelte industriali aziendali.
Questo terreno di storica conquista di democrazia e civiltà è oggi profondamente scosso (si potrebbe forse dire devastato) nelle sue fondamenta; da un lato dal fatto che di fronte all’irrompere dei processi di delocalizzazione è rimasto solo interno alla dimensione nazionale, dall’altro dal fatto, già prima accennato, che sulle attività coinvolte intorno allo stesso prodotto e anche nello stesso luogo di lavoro operano imprese con diversi contratti di riferimento, imprese cooperative non legate agli stessi vincoli, rapporti di lavoro individualizzati e una estensione e diversificazione del mondo dei lavori che non è più contenuto nei tradizionali confini degli storici contratti nazionali e che non si sente più rappresentato dalle organizzazioni sindacali tradizionali.
Infine sul piano legislativo i diritti del lavoro hanno subito pesanti ridimensionamenti o vere e proprie cancellazioni, tanto più evidenti in paesi come il nostro, dove erano stati oggetto di conquiste molto importanti. Oggi tutto lascia pensare che siamo alla vigilia del completamento del quadro con l’attacco al diritto di sciopero individuale, e cioè al diritto di sciopero insieme alla chiusura anche formale della contrattazione collettiva rispetto al diritto dei lavoratori di poterne essere i protagonisti e quindi di poterla esercitare democraticamente.
Il processo qui descritto sui contratti nazionali e sul diritto del lavoro è in una fase molto avanzata. Colpisce la sottovalutazione con cui viene vissuto e l’illusione di ridurne gli effetti con la ricerca del meno peggio, che, nel caso, ad esempio, del contratto nazionale ha portato a svuotarne il significato pur di mantenere una etichetta la cui utilità diviene sempre meno comprensibile per i lavoratori.
Ritengo che il venir meno di una dimensione generale orizzontale/trasversale (che possiamo cogliere in particolare in Italia per il punto a cui era pervenuto il movimento operaio) non possa essere un problema laterale né un problema temporale successivo rispetto al prodursi di movimenti e iniziative articolate, ma parte indispensabile di un insieme che solo in quanto insieme consente di dare valore al tutto.
La scomparsa o comunque l’indebolimento di diritti, conquiste e lotte che contraddicono l’idea che tutto sia flessibile in nome dell’economia di mercato (nella forma che ha assunto negli ultimi decenni e che si è imposta come indiscutibile rigidità) blocca la crescita e la pratica nei lavoratori e nella società di valori di giustizia sociale e solidarietà, mette fuori campo il valore del conflitto sociale generale e cioè il sale della democrazia. Non è credibile che sia rimpiazzabile dai terreni verticali dell’iniziativa sociale o da iniziative esterne al lavoro, pure anch’essi assolutamente necessari.
Il quadro di valutazione complessiva di questa mia nota non si presta, né vuole indurre risposte volontaristiche di retorica consolatoria, con infondate certezze sulle prospettive o fantasiose vie di fuga dalla realtà. Per certi aspetti capisco che anche questi aspetti compongono il quadro attuale di tentativi di opposizione.
Questa nota piuttosto, a partire dal riconoscimento e da una presa d’atto della realtà con cui confrontarsi, vuole contribuire ad evitare che si continui ad eludere i problemi a cui rinvia il tema del lavoro (della sua frantumazione, umiliazione e dispersione) e a non misurarsi con la possibilità o meno di unificazione del lavoro assumendo la consapevolezza che la risposta, se c’è, non passa attraverso le strade del passato (la sapienza organizzativa, politica, ideologica esterna ai lavoratori ed alla loro concreta condizione attuale) e richiede di misurarsi con una realtà del lavoro molto cambiata.
Per meglio chiarire mi soffermo sul ruolo che di fronte ai processi descritti ha avuto quel mondo che ancora oggi continua a pensarsi come sinistra. Si è di fatto collocata in una prima fase come se fossero processi di cambiamento transitorio e comunque non strutturale. Quasi che non puntassero a modificare il dato di fondo su cui era stato possibile il successo della sinistra politica, la sua forza isitituzionale, la supposta superiorità intellettuale e razionale delle sue idee. All’inizio vi sono state anche orgogliose e significative resistenze (ad esempio le generose scelte di Berlinguer nel suo ultimo periodo o le analisi del sindacato metalmeccanico tedesco negli anni ’80) e vi sono stati momenti importanti e significativi di aspre lotte operaie di opposizione (peraltro scarsamente comprese da gran parte delle organizzazioni politiche e sindacali).
Poi, via via, hanno prevalso culture di adattamento al nuovo corso del capitalismo e crescente condivisione delle culture ed ideologie che lo accompagnavano, con ruoli di fattiva complicità. In Italia e negli altri paesi.
Non mancano gli esempi: il ruolo da protagonisti di Blair e Clinton nel completare la globalizzazione finanziaria; il ruolo di gran parte dei politici e della cultura nel teorizzare la “flessibilità” del lavoro da mettere a disposizione del mercato; la deriva di adattamento sindacale frenata quasi esclusivamente dall’anomalia FIOM in Italia. E’ come se la sinistra non si fosse accorta che i processi messi in atto minavano al cuore la forza sociale che aveva fatto prevalere in una parte importante della borghesia capitalistica la ricerca di un più democratico equilibrio capitale/lavoro, sulla base del quale la sinistra aveva potuto costruire il proprio transitorio successo.
E’ come se la sinistra avesse pensato di poter conservare la sua forza politica e sindacale isolata dalla forza sociale autonoma che vi era dietro, che pure aveva aiutato ad emergere . Le sue idee sono apparse quindi sempre più patetiche e velleitarie, oppure consigli al capitale mentre eliminava il lavoro. Senza quella forza sociale la base di massa data per scontata diveniva vieppiù una illusione, e l’etichetta sempre più concepita come un brand di successo che avrebbe dovuto garantire la bontà dei prodotti da vendere. Insomma si è andata così configurando una sorta di sopravvivenza politica e sindacale sulla base di una rendita parassitaria, buona per politici come ceto di governo e per accompagnare un supposto realismo politico e contrattuale (sempre in nome del meno peggio) in attesa che i tempi cambino e si ristabiliscano gli equilibri del passato.
Nell’avviare la parte conclusiva di questa nota, questa mia riflessione, non a caso, si concentra sul tema della forza sociale riferita alla dimensione lavoro. La domanda (per me retorica) è: vi sono credibili alternative al sistema attuale senza che torni in campo una forza sociale costruita nella dimensione lavoro?
Ovviamente per alternative non intendo gli esiti di scontri di potere e di interessi interni al sistema che si è affermato, rispetto ai quali assumere il ruolo di osservatori, consiglieri e tifosi. Non ho diffidenze, né tanto meno ostilità, nei confronti di terreni esterni al lavoro su cui costruire opposizioni, lotte e proposte. Li ritengo anzi indispensabili in un processo di ricostruzione. Dubito però che possano confrontarsi paritariamente e positivamente con la logica capitalistica se non si è in presenza di opposizioni, lotte e proposte all’interno della dimensione lavoro in grado di testimoniare l’apertura di un processo di unificazione dell’universo lavoro. Un processo che, se sarà possibile, e per le cose sin qui dette, dovrà avere un respiro internazionale e determinarsi per via di costruzioni interne al protagonismo diretto degli uomini e donne che lavorano.
Oggi di fronte alla grande trasformazione dell’universo del lavoro il pensiero di sinistra pare come prigioniero dei limiti dell’eredità del passato (di come ha concepito il rapporto con il lavoro seppure con non molte, significative eccezioni) e della conseguente subalternità alla cultura che si è affermata con l’attuale capitalismo. Il pensiero di sinistra si presenta generalmente scisso tra diversi orientamenti che tento di riassumere su due tendenze estreme.
La prima ci propone una lettura della realtà attuale che nega la fine della struttura industriale fordista e in questo ripropone la centralità della fabbrica manifatturiera e della catena di montaggio. Tutto ciò che contraddirebbe questa lettura e che non sia riunificabile a questo quadro, viene criticato come costruzioni culturali artificiose, ingannevoli, costruite per fingere un vero cambiamento che in realtà non ci sarebbe mai stato.
La seconda tendenza ritiene che, come esito della trasformazione che è avvenuta, il termine lavoro non sia più in grado di significare utilmente la realtà con cui confrontarsi, da criticare e trasformare. Il termine lavoro si presta a manipolazioni retoriche e ideologiche. Meglio quindi sarebbe parlare di lavori, ognuno dei quali pone problemi ed esprime interessi specifici e differenti; realizzare tra questi convergenze ed alleanze più o meno durature (guarda caso come nel bel tempo antico); rinunciare ad una idea di unificazione che sarebbe priva di fondamenta su cui costruirsi.
Un’articolazione (o alla base) di questa lettura vi è poi la convinzione che il lavoro abbia perso senso, in quanto in via di scomparsa e comunque ora non più in grado di costituire misura nella produzione del valore. In questa chiave più che il lavoro interessa la percezione di un reddito garantito prescindendo dal lavoro e il nodo della redistribuzione si ripropone come centrale.
La mia descrizione delle tendenze in campo è senza dubbio semplificata e credo che molti non l’accetteranno per sé. Riconosco che in entrambe vi siano nuclei di verità e richiedano attenzione e non sbrigative liquidazioni. Ciò che però in questo caso interessa è che in entrambe le tendenze la riunificazione del lavoro viene vista in modo tradizionale o per riproporla o per negarla. Entrambi gli approcci liquidano l’idea che si possa tornare a parlare del lavoro e della sua riunificazione come possibilità con cui misurarsi, anche se solo se frutto di un processo in cui siano protagonisti (non sostituibili) gli uomini e le donne dell’universo dei lavori/del lavoro.
Non mi sento di escludere che la trasformazione avvenuta abbia portato all’esaurimento non transitorio della possibilità di un movimento di alternativa che veda nel lavoro, nei lavoratori la base indispensabile. C’è però in questa tesi una sorta di negazione o razionalizzazione di ciò che è avvenuto (quasi come un’identificazione con l’avversario) e sopratutto (riprendendo come in parte già accennato prima) mi riesce difficile capire come rinunciando all’obbiettivo di unificazione del lavoro possa essere pensata e praticata una idea di trasformazione radicale e democratica della società fondata su valori di giustizia sociale e solidarietà.
Non siamo oggi in una situazione in cui ritengo si possano considerare imminenti le risposte al tema qui posto, e comunque non sono tempi che si decidono al di fuori dei movimenti reali dei lavoratori. Intanto sarebbe comunque utile avvicinarsi alla concretezza dei processi che hanno investito il mondo del lavoro ricostruendo insieme a chi lavora una conoscenza che aiuti a capire se davvero all’interno dei lavori, nella frantumazione e dispersione, non vi siano i fili da riannodare per una possibile nuova riunificazione del lavoro.
Potremmo scoprire molte cose su ciò che è avvenuto in questi decenni e di cui la cultura di sinistra non si è quasi occupata, lasciando campo libero alle culture e agli studi manageriali e conseguenti sperimentazioni/applicazioni. Per esempio, scoprire che le caratteristiche dell’innovazione tecnologica e organizzativa della ristrutturazione del lavoro manifatturiero della fase precedente sono state banco di prova della riprogettazione del lavoro nel suo insieme, manuale e cognitivo, dentro e fuori la fabbrica, e ciò potrebbe dirci molto sul filo che lega i lavori e contraddice la banalità delle pseudo categorie “vecchio e nuovo”.
E ancora, scoprire che su questa base il capitale ha sviluppato nuovi sistemi di misurazione del lavoro e li ha estesi ben oltre i tradizionali confini. Ha inoltre fatto propri e snaturati (cioè ridisegnati e ricondotti alle proprie finalità) molti aspetti che furono propri del protagonismo operaio partecipativo degli anni ’60 e ’70, come il gruppo omogeneo e il delegato (team worker e leader nel sistema F.C.A.). Interessante da questo punto di vista un recente intervento di Salvo Leonardi e alcune note di Roberto Bennati. [3]
Per fare questo passaggio occorre una cultura (un’attitudine) dell’attenzione ai processi interni alla trasformazione delle forme di dominio del capitale sul lavoro, senza convinzioni precostituite non criticabili nelle verifiche di realtà. E’ un’operazione che richiede il superamento di limiti storici della sinistra e la profonda modifica di una cultura concentrata sulla dimensione politica esterna, da cui deriverebbe la indiscutibile verità sul lavoro, sia sul versante radicale che riformista. Nell’aprire questa finestra sulla realtà ritengo che si possa cogliere ancora meglio il valore della recente idea della coalizione sociale
Non siamo di fronte alla probabilità che si sviluppino a breve dinamiche che rispondano ai problemi qui sollevati. Se vi saranno andranno seguite e costruite con pazienza e costanza, considerando il tema di questa riflessione parte di un lavoro di approfondimento e verifica, un impegno che non si propone come esclusivo e che si confronta con altre ipotesi e altri campi di analisi.
La coalizione sociale può essere il luogo, lo spazio che favorisce questo processo, non lo riduce ad un dialogo culturale, lo ricomprende dentro azioni e iniziative di lotta. Questo ruolo (della coalizione sociale) può essere favorito dalla sua esternità rispetto alle dinamiche partitiche ed elettorali e sopratutto dall’assumere il terreno sociale come punto di partenza della sua ragion d’essere rivolta a chi su quel piano fonda oggi la sua azione e le sue prospettive.
E’ questo che consente di cogliere il valore della proposta della FIOM che, andando oltre i confini dell’organizzazione sindacale, dichiara il deficit di rappresentanza del sindacato e coinvolge movimenti, fasce sociali, culture democratiche impegnate in una costruzione di opposizione.
E’ questa forse la strada per tentare di riempire di significato comprensibile la stessa battaglia democratica per impedire la ulteriore chiusura di spazi e diritti che rendono sempre più arduo lo sviluppo del processo prima delineato all’interno dello svolgimento di una dialettica democratica.
Sottolineo questa nota finale sulla democrazia in quanto non può sfuggire la consapevolezza del danno incalcolabile che si produrrebbe se nei prossimi mesi dovesse compiersi la cancellazione di fatto del diritto di sciopero e il consolidamento definitivo di quanto già in atto nella sottrazione della rappresentanza e della contrattazione collettiva dall’esercizio vincolante della partecipazione e della decisione dei lavoratori.
NOTE
[1] Giorgio Ruffolo, Testa e croce. Una breve storia della moneta, Einaudi 2011; Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, Il film della crisi. La mutazione del capitalismo, Einaudi 2012
[2] Lisa Dorigatti, “Strategie di rappresentanza nel lavoro nelle catene del valore: al di là della distinzione fra datore di lavoro ” formale e informale”, Inchiesta, Rintracciabile anche su Inchiesta on line.it (rubrica “lavoro e sindacato” 9 giugno 2015)
[3] Roberto Bennati “Il World Class Manufacturing in Fiat Crysler Automobile. Appunti su lavoro umano tra mente e corpo”
Salvo Leonardi (Associazione Bruno Trentin): “La persona e la fabbrica : WCM e condizioni di lavoro in Fiat – Appunti per una discussione” – La Sapienza 23 gennaio 2015. Già uscito sull’ultimo numero di Quaderni di Rassegna Sindacale
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 7 ottobre 2015 riprendendolo Alternative per il socialismo, numero di settembre

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