La parola contraria: Erri De Luca o dell'istigazione

26 Settembre 2015 /

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di Luca Mozzachiodi
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
(Dante, Inferno IX)

Ricordo i giorni di fine estate in cui ci arrivò notizia della denuncia contro Erri De Luca depositata da LTF, la ditta che ha in carico la costruzione della linea di alta velocità Torino-Lione, l’ormai famigerata Tav; in quel momento ho pensato: stanno denunciando uno scrittore per quello che dice, sono forse decenni che non succede! Che sia un segno di salute del mondo culturale italiano? Possibile che qualche potere sia ancora in difficoltà di fronte alla parola di uno che scrive poesie e romanzi?
A dimostrazione del fatto che non sempre e non tutti i processi danno un’immediata notorietà devo dire che, almeno personalmente, non corsi in libreria a comprare i libri di De Luca e mi limitai a seguire le vicende giudiziarie, finché poco tempo fa, in concomitanza con la ripresa autunnale delle udienze e con la richiesta, da parte dell’accusa, di otto mesi di reclusione per istigazione al sabotaggio, ho ceduto al consiglio di un amico lasciandogli vincere la mia ritrosia nei confronti dei narratori italiani contemporanei e ho letto La parola contraria (Feltrinelli, 2015).

Questo libretto così apparentemente postmoderno per data e stile è in realtà una delle opere più classiche che si possa immaginare, una vera e propria defensoria scritta che a tratti fa pensare a qualche oratore greco o latino e la quarta di copertina «Sul banco degli imputati mi piazzano da solo, ma solo lì potranno. Nell’aula e fuori, isolata è l’accusa» richiama, forse intenzionalmente anche se non esplicitamente, ad una certa idea di polis e di politica: il luogo fisico e il mezzo attraverso cui una comunità di cittadini esprime la propria opinione.
Una antitesi tra popolo e governo è parte strutturante del libro ma siamo lontani dall’impostazione retorica e persino dal versante buono del populismo, viene da dare ragione a De Luca e dire che l’antitesi è nella realtà perché il governo rappresenta, con la costruzione della Tav ma non solo, poteri e forze economiche e politiche i cui interessi sono contrari a quelli del popolo della Val di Susa e italiano. Tra le aberrazioni e le mostruosità che si incontrano in questa vicenda troviamo infatti una denuncia e l’accusa di azioni lesive del pubblico interesse e di azioni strategiche per la nazione mossa da un’impresa privata con sede in Francia e depositata facendo riferimento a giudici specifici per il caso, una consistente forza militare che presidia la Val di Susa a spese della stessa LTF, i lavori condotti nonostante la presenza letale di amianto e trascurando, per accordo statale, le adeguate precauzioni, la militarizzazione della zona con gravi disagi alla vita quotidiana degli abitanti.
Difficile non pensare che si tratti di un’antitesi di interessi spinta allo scontro della quale la vicenda personale dell’autore è solo una parte; c’è in più un altro aspetto della questione tremendamente sinistro e occultato dal moralismo e dalla mistificazione, se infatti l’istigazione al sabotaggio passa attraverso espressioni come quelle usate da De Luca nell’intervista all’Huffington Post «La Tav va sabotata: ecco perché le cesoie servivano, sono utili a tagliare le reti» a cosa sono utili le pistole, i mitra, i manganelli dei poliziotti? Se domani vedessimo un rappresentante del governo, un capo della polizia, un delegato di LTF esporre serenamente seduto in un salotto televisivo le logiche conseguenze del loro discorso: «La Tav va completata ad ogni costo: ecco perché i mitra e i manganelli servivano, sono utili a mettere paura, a sparare alle persone, a spaccare le ossa» grideremmo all’istigazione all’omicidio?
Occorre davvero fermarsi a meditare sulla violenza, che non è solo quella del movimento No Tav, sull’enorme quantità di violenza che le istituzioni presuppongono, sul potere di vita e di morte sui corpi che diventa parte stessa della loro natura prima di paventare future spirali di barbarie violenta e terrorismo.
Esistono molti corpi in grado di esercitare una terribile violenza istituzionale e in più di proiettare uno stigma morale potentissimo sui tentativi di difesa, come in questo caso, e ora sappiamo che questi corpi possono anche essere mobilitati a spese private, non posso non dire che la cosa mi puzza di mercenariato.
Oltre a tutto questo e dentro c’è la vicenda di uno scrittore, processato non tanto per la sua opinione quanto perché si ritiene che la sua opinione sia in grado di condizionarne altre e di produrre azioni e comportamenti collettivi, fatto che apre il baratro della domanda sul ruolo sociale e politico della letteratura e la posizione degli intellettuali in rapporto alla collettività che è probabilmente il grande problema del nostro tempo riguardo la letteratura.
Quello che si capisce dall’impostazione del libro è che non c’è una vera istigazione, piuttosto una contrapposizione fattuale, una serie di contraddizioni che non possono non esplodere e la figura di uno scrittore, visto come un libero pensatore, che rispondendo a un imperativo di verità morale, coerenza personale e impegno politico secondo le proprie convinzioni le denuncia.
La differenza tra l’atteggiamento di De Luca e quello dell’accusa è però non da poco: il primo presuppone un cittadino, un lettore in grado di giudicare autonomamente e libero di formarsi un suo pensiero, la supposizione di istigazione dice inevitabilmente che si pensa ai cittadini come menti e caratteri deboli, in grado di essere indirizzati da qualcuno cui si riconosce un potere di influenza superiore, quasi degli animali che di fronte a un’opera di loro interesse non sono nemmeno in grado di riconoscerne l’evidenza; a questo proposito giova ricordare che istigare propriamente è l’azione di indirizzare con un pungolo buoi e capre.
Il confortante quadro finale è che secondo l’accusa, la Lft, il governo e, se De Luca dovesse essere condannato, secondo la legge i cittadini sono una massa di buoi e capre che devono essere guidati al loro interesse che sono incapaci di riconoscere e prontamente macellati nel caso in cui divenissero recalcitranti, se poi dovessero essere traviati da cattivi pastori allora questi vanno puniti in maniera esemplare.
Tralasciando di pronunciarmi ancora su questa orgia di potere economico e sprezzante elitismo di classe mi sorge invece spontaneo pensare che comunque, se hanno ragione loro nel pensare che De Luca volesse, che soprattutto potesse istigare gli italiani allora una speranza c’è: di istigatori allora abbiamo un disperato bisogno, di scrittori che partendo dalla coscienza di come stare nelle lotte, che De Luca rievocando in belle pagine la sua formazione attribuisce a Pasolini ma che sta anche dimostrando in prima persona, le nominino per quelle che sono e le combattano anche fuori dalle aule e dai laboratori di speculazione e di creazione.
Ci serve, forse proprio grazie alla parola contraria di presunti istigatori, una nuova geografia delle lotte per unirle in un fronte unico se davvero quella in Val di Susa non è, come qualcuno pure per onorarla ha detto, l’ultima lotta rimasta in Europa.

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