Morire sul lavoro: la crescita senza audience

16 Settembre 2015 /

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di Gabriele Polo
La crisi è finita. Dicono. E snocciolano dati da zerovirgolaqualcosa che segnalerebbero un rilancio italiano, con annessa spiegazione più che ovvia: “Le riforme iniziano a dare i loro frutti, Jobs Act in testa”. Così dicono.
Dicono meno di altri numeri. Del numero di disoccupati che rimane sostanzialmente invariato (più di tre milioni); del sesto posto tra i 28 paesi dell’Ue per tasso di disoccupazione (12%, peggio – o “meglio” – di noi solo Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo); del fatto che l’aumento dell’occupazione sia tutto degli ultracinquantenni “grazie” a un’età pensionistica tra le più alte del mondo (mentre un giovane su due continua a essere senza lavoro).
Non dicono, poi, quasi nulla di quel che c’è tra le pieghe di questa “ripresa”. Di come si lavora nell’era del dopo articolo 18, della precarietà fatta legge, del “lavoro qualsiasi” accettato purché ci sia, dei voucher che dilagano in ogni settore, del ciclo continuo dai ritmi massacranti di centre fabbriche-miracolose, del neo-schiavismo in agricoltura. Di come si lavora e si vive, dicono poco. Pochissimo – quasi niente – di come si muore. Se non per qualche riga in cronaca nera con seguito di parole rituali.
Nell’ultima estate – dalla Puglia al Veneto – abbiamo saputo delle morti nei campi gestiti dai caporali; negli ultimi giorni – da Priolo a Torino – abbiamo letto di delitti atroci, in raffinerie o in fabbriche metalmeccaniche: morti soffocati o schiacciati. Anche per questo, volendo, ci sono numeri e statistiche. Nei primi sette mesi del 2015, in Italia, 643 persone sono morte sul lavoro, per incidenti o per fatica, per incuria delle norme o perché non c’era tempo per rispettarle. Magari per sfruttamento.

Il numero degli “incidenti” è cresciuto moltissimo negli ultimi mesi e queste morti hanno anche una loro geografia, molto legata alla realtà industriale del paese: il primato è della Lombardia (70 morti), seguita dalla Toscana (46) e dal Veneto (42), mentre per quanto concerne il rischio di mortalità rispetto alla popolazione lavorativa, il record è del Nordest con un indice di 32,7 contro una media nazionale di 21,1.
Anche questi dati sono il frutto delle riforme? C’è una relazione tra le cifre esaltate e quelle nascoste? Giudicate voi, il guaio dei numeri è che si lasciano interpretare a piacere. Ma anche confrontare: nel primo semestre 2015 gli occupati sono cresciuti dello 0,7% rispetto allo stesso periodo del 2014; contemporaneamente i morti sul lavoro sono aumentati del 9,5%. Altri numeri. Altra crescita.

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