Sinistra, riformismo e riforme: è necessario un movimento che rappresenta la vita reale

14 Settembre 2015 /

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di Cristina Quintavalla
Norma Rangeri, nel suo decalogo sulle possibilità di vita a sinistra, indica come punto dirimente la scelta di un “riformismo di sinistra”. Affermazione impegnativa, a cui replicherei con una domanda: l’improponibilità odierna della rivoluzione coincide ipso facto con la necessità di una collocazione nel campo riformistico? Non c’è tra riformismo e rivoluzione una possibilità di opzioni intermedie anche molto radicali?
C’è stata nel nostro Paese, negli anni Settanta, una sola grande stagione di riforme: lo Statuto dei lavoratori, la scuola per tutti e ciascuno, il servizio sanitario nazionale. Esse però furono strappate dopo lunghissime lotte senza quartiere, che videro una straordinaria mobilitazione popolare, operaia, studentesca, in anni peraltro in cui il Pci non era al governo, bensì all’opposizione di governi guidati – guarda un po’ – dalla DC dei vari Rumor, Andreotti, Colombo, ed era oltretutto incalzato da una sinistra in genere composita, divisa, ma molto radicale.
La storia insegna che il discrimine non è necessariamente quello di essere una forza di governo, bensì una forza – un insieme di forze – che rappresenta il movimento reale della vita reale. Le altre, che pure si chiamano riforme, in realtà sono state contro-riforme, indipendentemente dai presidenti del consiglio di turno: è persino con governi di centro-sinistra che sono partite le liberalizzazioni e le privatizzazioni.
Vocazione minoritaria? Certo, sinché non si dimostra di essere maggioritari, rispetto ai bisogni, agli interessi, e soprattutto alla reale capacità di mobilitazione e di lotta della gente. La prospettiva della costruzione dell’unità delle sinistre può essere senz’altro una buona intuizione, che coglie la domanda politica di quella parte del paese, che da oltre vent’anni tiene viva la lotta contro gli attacchi del grande capitale e dei suoi governi.

Si potrebbe dire che è una bussola, a patto però che indichi il nord. Fuor di metafora il nord non può essere una mera prospettiva elettoralistica, bensì una prospettiva antisistemica, fondata su uno sforzo di analisi della nuova fase dello sviluppo capitalistico. Nelle “Tesi su Feuerbach”, Marx critica quel materialismo astorico e statico, che prescinde dall’individuazione delle particolari condizioni storiche che vengono determinandosi in virtù delle relazioni in cui gli uomini entrano tra loro nella vita produttiva. E naturalmente sostiene che la realtà economico sociale deve essere indagata nella sua totalità, mettendo a fuoco le relazioni dialettiche intercorrenti tra le parti che la costituiscono.
Il neo-liberismo ne è l’indirizzo economico, che ha consentito la vittoriosa liberazione del capitalismo da vincoli e limiti alla sua espansione globale. È il modo attraverso cui il capitalismo ha compiutamente raggiunto la sua dimensione totalitaria, e dunque l’espansione illimitata. È questo oggi il terreno di analisi e di lotta da cui ripartire, se non si vuole indicare un contenitore senza un contenuto, ma soprattutto se non si vuole condurre una forza senza indicare contro chi/cosa deve combattere. Ancora: se non si vuole delineare lo scenario solo politico di una sinistra il cui obiettivo sia quello di superare la soglia di sbarramento ed entrare in Parlamento (per fare cosa?), senza fornire una prospettiva strategica alternativa.
Questa è certamente un’istanza cruciale. Oddi scrive, pur all’interno di alcuni passaggi condivisibili, sul Manifesto di martedì 8 settembre, che oggi sono “improponibili le grandi narrazioni novecentesche”, “sia quella comunista che quella socialdemocratica”. Affermazione molto impegnativa, che richiederebbe in verità grande cautela.
Chi ha teorizzato la fine delle grandi narrazioni (récits), tra cui in particolare quella marxista, è stato Lyotard nel suo “La condition post-moderne”. La demonizzazione del marxismo, ridotto a menzognera e fallimentare rappresentazione-racconto di promesse di cambiamento, giunge a compimento col post-moderno, che trascina con sé la fine di ogni possibile criterio veritativo e di ogni possibile dimensione collettiva dell’esistenza. Se nel 1979 quest’ opera ha rappresentato lo smarrimento, la disillusione, la delusione di un’epoca storica, e la conseguente teorizzazione della frammentazione, della diversità, dell’individualismo, oggi, a distanza di quarant’anni, ci rendiamo conto che questa sensibilità ci ha disarmato: è in atto infatti il più compiuto, illimitato, pervasivo, intrusivo, globale dominio del sistema economico-produttivo capitalistico, giunto alla sua fase totalitaria.
Il marxismo non è una narrazione, né una narrazione finita: è la scientifica analisi della contraddittorietà e mostruosità di questo sistema. Bene prezioso, grande bussola nell’intelligenza della realtà. Ci uniremo in quanto marxisti o anticapitalisti? Certo che no: ci uniremo per il diritto alla casa, all’istruzione, alla salute pubblica, ecc. Ma avendo chiaro che ogni lotta, ogni mobilitazione, ogni presidio devono costituire limiti al capitalismo, a cui va opposta resistenza, contro cui organizzare il conflitto.
Dicono Mezzadra e Negri: per “costruire potere nella crisi”. Il capitalismo può non essere per sempre. Esso si fonda per definizione su un rapporto mobile, che può essere modificato dalla capacità di contrapporgli al suo interno una antitesi fortemente conflittuale. Tanta parte della (ex) sinistra da troppo tempo considera quello capitalistico come l’unico e insuperabile sistema economico possibile. A questa sorta di “fine della storia” in tanti hanno immolato la loro verginità politica, diventando più realisti del re, teorizzando liberalizzazioni, privatizzazioni, cogestioni, precipitando senza rete nelle braccia delle classi dominanti, vezzeggiate, inseguite, servite, con la lingua penzoloni, come cani che aspettano la carezza dal padrone.
L’introiezione del sistema di pensiero, delle forme del simbolico, della tavola dei (dis)valori, penetrati come virus letali nelle coscienze individuali, anche nelle nostre -dei compagni e delle compagne-, ha raggiunto tale pervasività da indurci ad amare le nostre catene e a compiacerci della riduzione della vita al suo valore di scambio. La “teologia” capitalista col suo apparato ideologico capillare ha istituito un potere di soggezione di tipo totalitario, che ha anestetizzato e occupato le coscienze al punto di vanificare, ridurre, talora estirpare i conflitti, le lotte, ogni forma di resistenza al suo comando.
Ha peraltro disgregato, diviso, contrapposto gli uni agli altri, a partire dai luoghi di lavoro, dove una miriade di contratti di lavoro diversi tra loro ha colpito a morte la solidarietà di classe, istituito il culto della difesa dell’interesse privato contro quello altrui, intaccato la coscienza di classe. Questo processo appare inarrestabile, alimentato dai contratti a termine, dai voucher, dalle cooperative (servizi, logistica, pulizie, assistenza, eccetera) in cui viene erogato il nuovo lavoro servile, dalla fine della contrattazione collettiva, dalle umilianti forme della contrattazione individuale.
L’odioso capitalismo ci ha fatto precipitare dentro queste sabbie mobili, che chiamerò col loro nome: illimitato processo di valorizzazione del capitale, estorto in primo luogo al lavoro, e in secondo luogo sottratto ai cittadini, che avrebbero bisogno di servizi, di beni comuni, di uguali opportunità, attraverso la trappola del debito e le speculazioni finanziarie ai danni degli stati e degli enti territoriali.
Sebbene le forme del lavoro siano mutate e accanto a quello a tempo indeterminato (si fa per dire, senza art. 18!) si diano le infinite forme del lavoro, precario, flessibile, stagionale, non garantito, sottopagato, ricattato, schiavile, servile, il mondo del lavoro resta, da nord a sud del pianeta, al centro del processo di formazione di plus-valore.
Grande punto di forza della proposta di Coalizione sociale della FIOM è la volontà di aggregare attorno al mondo del lavoro, disarticolato, diviso, isolato, quella parte di società civile, che si è impegnata in lotte e movimenti settoriali, che non hanno sinora intercettato l’attacco che da molti anni viene condotto contro i lavoratori. Attorno ai lavoratori- tutti ormai precari – va ricostruita l’opposizione. Dalla fabbrica ai campi, dai servizi alla logistica, contro il caporalato, la delocalizzazione, il ricatto, lo smantellamento dei diritti e delle conquiste raggiunte.
Dobbiamo rimettere al centro della nostra analisi la odierna divisione internazionale del lavoro – anch’essa causa dei grandi flussi migratori-, e operare per la costruzione di una nuova internazionale del lavoro, capace di mettere in relazione l’operaio del nord-Europa con i lavoratori iper-sfruttati del sud del mondo, in cui sono stati esportati i capitali o delocalizzate parti della produzione.
La prospettiva emancipativa tuttavia deve riguardare anche i modi: si potrebbe dire, gramscianamente, che devono essere rioccupate le casematte, i presidi ideologici che ci anestetizzano, contrapponendo all’immoralità capitalistica un’etica solidaristica e agonistica al contempo, la rottura con convenzioni, abitudini, disvalori, e vivere un’altra vita militante.
La costruzione di un blocco sociale alternativo, di una coalizione antagonista, comporta pertanto la ridefinizione del campo dell’alternativa anticapitalistica, l’individuazione delle vertenze, la costruzione al contempo di radicamento e conflitto e di forme di contropotere (fabbriche occupate, eccetera), la costruzione di spazi della rappresentanza di base (riproponendo una nuova stagione consigliare), l’organizzazione dell’autodifesa, la creazione di movimenti di resistenza sociale, dispiegati nei territori, portando avanti elementi di mutualismo, municipalismo alternativo, cooperativismo, mutuo soccorso.

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