Grecia: debiti, crediti e sciacallaggi

9 Settembre 2015 /

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Tsipras con il leader di Anel, Panos Kammenos - Foto Lapresse Reuters
Tsipras con il leader di Anel, Panos Kammenos - Foto Lapresse Reuters
di Marco Ligas
In questi mesi, in seguito alla crisi di Syriza, si parla di nuovo, e con preoccupazione, delle conseguenze del debito pubblico contratto da diversi Paesi. E non mancano i suggerimenti, non sempre disinteressati, perché si dia avvio una volta per tutte ad un cambiamento radicale della politica europea, da orientare naturalmente verso la crescita. Con determinazione viene ribadito che servono più investimenti, una maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio, una riduzione degli ostacoli burocratici per far funzionare meglio la Pubblica Amministrazione e, ovviamente, una diminuzione dei costi del lavoro per far si che le imprese creino nuova occupazione.
Non si tratta di idee originali: queste indicazioni, ripetute insistentemente nel corso dell’ultimo decennio da tanti taumaturghi, non hanno favorito la svolta auspicata. Non a caso i paesi che vivono le fasi più drammatiche della crisi le considerano inefficaci perché non affrontano le cause reali della recessione.
In realtà non c’è solo presunzione o superficialità in chi fa queste proposte, c’è qualcosa di peggio: c’è un misto di arroganza e di cinismo sorretti dalla consapevolezza che i valori della solidarietà e della giustizia sociale non hanno diritto di cittadinanza in un contesto sociale che invece deve essere dominato dalla prevaricazione e dalla forza del più potente. Perché questo è l’obiettivo di fondo che vogliono realizzare i rappresentanti dei paesi forti, a partire dalla Germania.

Non c’entrano più i principi e i tentativi (ma erano davvero autentici?) avviati nel secondo dopoguerra tesi alla ricostruzione di un’Europa uscita lacerata dai conflitti del primo cinquantennio del secolo. Oggi ha senso solo l’affermazione e il consolidamento di un sistema economico fondato sul predominio delle élite finanziarie, delle banche e dei clan della corruzione che trasferiscono le ricchezze del pianeta nelle mani di esigue minoranze.
Qual è il significato reale dell’esproprio compiuto in queste settimane dal consorzio tedesco Fraport ai danni della Grecia e del suo turismo? E in che modo la cessione della gestione di 14 aeroporti regionali al consorzio tedesco potrà garantire la fuoriuscita della Grecia dalla crisi devastante in cui si trova? Quel miliardo o poco più che il governo di Atene riceverà non arriverà neppure nelle banche della capitale essendo destinato alla restituzione di una minima parte del debito contratto dai governi greci prima che Tsipras diventasse primo ministro.
Non ci saranno dunque gli investimenti necessari per promuovere la cosiddetta crescita perché mancano le risorse per effettuarli. È su questa realtà che tutti dovrebbero riflettere prima di lanciare i loro proclami. È persino paradossale, dovremmo dire irridente, che le privatizzazioni imposte a Tsipras vengano realizzate a favore dei tedeschi. Così com’è vergognoso che oltre il 50% del capitale della società aeroportuale Fraport sia detenuto dalla città di Francoforte.
Non c’è forse un conflitto di interessi tra chi impone quelle privatizzazioni e i creditori del debito pubblico contratto dalla Grecia? Che cos’è questa pratica se non sciacallaggio? Ha ragione Josepf Stiglitz quando sottolinea che gli atteggiamenti di certi paesi europei sono paragonabili a quelli dei colonialisti di fine Ottocento.
Sarebbe perciò indispensabile che l’Europa prendesse atto una volta per tutte che la crisi si risolve con la rimessa in discussione del debito pubblico. Questa proposta può essere considerata ingenua o banale, ma è certo che senza la sua realizzazione sarà molto difficile che l’Unione possa avere un futuro.
Attualmente non sappiamo come si evolverà la situazione politica in Grecia. Tsipras e il suo partito sono in difficoltà ma l’esito della loro crisi non è un fatto che non ci riguarda; proprio per questa ragione è incomprensibile l’atteggiamento indifferente del nostro governo. In realtà c’è bisogno di unire le nostre energie a quelle dei paesi più deboli perché finisca il rigore imposto dai poteri finanziari, dalle tecnocrazie e dai governi che li tutelano.
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto sardo il 1 settembre 2015

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