Legge elettorale: così la minoranza vincente prende tutto

20 Luglio 2015 /

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di Lorenza Carlassare, professoressa emerita di diritto costituzionale all’università di Padova
La legge elettorale che il parlamento ha recentemente approvato in sostituzione di quella dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale si salda con le altre riforme progettate o parzialmente concluse, ispirate tutte a un unico intento: allontanare il popolo dalle istituzioni, togliergli voce, ridurne il peso politico. Solo considerandole insieme se ne comprende la portata.
Il risultato complessivo è allarmante per la democrazia: grazie all’Italicum, che altera l’esito del voto, la Camera dei deputati non può dirsi rappresentativa della volontà popolare; sul Senato, non più elettivo, ogni scelta del popolo è completamente esclusa; nelle Province, abolite ma… ancora in vita, in realtà è abolito solo il Consiglio provinciale, l’unico organo eletto. L’area della “democrazia” ne risulta visibilmente ridotta.
Ragioni di illegittimità
È singolare che accingendosi a costruire una nuova legge elettorale, dopo l’annullamento della precedente il parlamento ne abbia riproposti i contenuti pur tentando di mascherarli con alcune modifiche che non ne alterano la sostanza. È singolare e anche rischioso sia per il destino della legge che potrebbe essere travolta da un nuovo giudizio di costituzionalità, sia per le stesse istituzioni cui non gioverebbe il ripetersi di un evento così traumatico. Le ragioni di illegittimità infatti rimangono, sostanzialmente le stesse già riscontrate dalla Corte.

La legge elettorale Berlusconi-Renzi comporta, allo stesso modo della precedente, “un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica” e compromette la “funzione rappresentativa dell’Assemblea”. Per la Corte costituzionale – sent. n. 1/2014 – le norme che “producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica… e la volontà dei cittadini espressa attravero il voto” sono illegittime: un premio eccessivo attribuito al partito che raggiunge la soglia stabilita di sarebbe perciò contrario al contenuto della sentenza.
In gioco è il fondamentale principio di eguaglianza del voto del quale viene considerato anche il peso “in uscita”, vale a dire il risultato che ne consegue: il principio esige che “ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”, e non consente “una diseguale valutazione del peso del voto in uscita ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria a evitare un pregiudizio per la funzione dell’organo parlamentare”.
Un voto diseguale
È ovvio che già fissando la soglia del 40% per l’attribuzione del premio, i voti del 60% degli elettori indirizzati a partiti diversi pesano circa la metà dei voti dati alla lista vincente. Poi nel turno di ballottaggio la diseguaglianza si aggrava; in realtà quel 40% è solo un inganno, una soglia puramente apparente che non interessa raggiungere. Se nessuno la ottiene, il premio viene attribuito dopo un secondo turno di ballottaggio fra le due liste più votate, qualunque percentuale abbiano ottenuto (il 25%, il 20 o ancora meno). Per partecipare al ballottaggio non è richiesta alcuna soglia d’accesso.
Ciò significa, in concreto, che al ballottaggio una delle due liste necessariamente supererà l’altra, vincerà il premio e, pur avendo scarsissimo seguito nel Paese, prenderà l’intero potere. Disporrà della Camera e del governo, sarà in grado di occupare le diverse istituzioni e di estendere la sua influenza sugli stessi organi di garanzia (primo fra tutti il presidente della Repubblica, eletto dal parlamento). La minoranza vittoriosa
avrà conquistato così la libertà di agire a suo arbitrio senza curarsi né del popolo né delle altre forze politiche, destinate tutte a essere totalmente ininfluenti. Una minoranza assolutamente padrona, senza regole in grado di vincolarla, senza limiti e freni anche sul piano politico: è un esito che conduce fuori dalla democrazia costituzionale.
Sul ballottaggio va fermata l’attenzione; è questo passaggio, in particolare, a marcare la differenza dalle esperienze precedenti. Il “premio” – introdotto la prima volta dal fascismo che, grazie a esso, trasformò l’ordinamento a suo piacere – fu previsto poi nel 1953 dalla cosiddetta “legge truffa” che suscitò reazioni violentissime in parlamento e nel Paese. Ma il confronto tra quella legge e l’Italicum è a completo favore della prima che allora sembrava assolutamente inaccettabile. Oggi, abituati come siamo a continue forzature elettorali, pare a noi quasi un innocuo espediente a confronto con le norme appena approvate.
La nostra sensibilità democratica, dopo anni di logoramento, si è davvero attenuata; ci si abitua a tutto, anche al peggio, bisognerebbe, almeno, stare attenti a non abituarsi troppo. Dove stanno le differenze tra legge-truffa e Italicum? Ne segnalo tre, veramente essenziali:

  • a. nella legge del ’53 la soglia richiesta ai fini dell’attribuzione del premio era il 50% più uno, il che significa che si trattava di un vero “premio di maggioranza” a favore di chi la maggioranza l’aveva già ottenuta, diretto solo a rafforzarla. Ora invece il premio serve non più a rafforzare, ma a creare la maggioranza, a far diventare maggioranza una minoranza. La differenza non è da poco. Non a caso Aldo Moro, a sostegno della legge del 1953, teneva a sottolinearne il fine: “È una maggioranza elettorale già conseguita che viene rafforzata”.
  • b. nel ’53 – a differenza di oggi – se nessuno raggiungeva la percentuale richiesta il premio non veniva attribuito e ciascun gruppo aveva i seggi corrispondenti ai voti ottenuti. E proprio questo avvenne in concreto. Il popolo italiano, sollecitato dalle opposizioni, rispose spostando il voto verso partiti diversi dalla Democrazia Cristiana e i suoi alleati, col risultato che la DC, che in passato arrivava da sola al 49%, insieme ai partiti minori non riuscì a raggiungere il 50%.
  • c. la terza differenza sta nel fatto che l’Italicum non ammette apparentamenti nel turno di ballottaggio sicché il premio va per intero alla lista più votata che conquista da sola più della maggioranza dei seggi: un unico partito è in grado di dominare tutti. Alla pericolosa concentrazione di potere nelle mani di una minoranza si accompagna inoltre un effetto politico grave, non meno dannoso per la democrazia: un astensionismo più alto. È una conseguenza facile da prevedere: gli elettori sono indotti a partecipare al voto per sostenere la coalizione di cui il loro partito fa parte se nel turno di ballottaggio più gruppi possono mettersi insieme per far vincere la coalizione opposta; in caso contrario invece, sentendosi estranei a entrambe le parti, i cittadini sono indotti piuttosto a disertare le urne. Ma chi ci governa non sembra preoccuparsi troppo degli astenuti che, in definitiva, non contano. L’importante è vincere, comunque; la consistenza del “seguito” è irrilevante.

Cosa avrebbe dovuto ricavare il legislatore dalla sentenza n. 1 del 2014? Innanzitutto un riposizionamento dei valori. Per la Corte costituzionale la stabilità governativa merita di essere considerata, ma i due princìpi – rappresentanza e governabilità – non sono sullo stesso piano.
Agevolare la formazione di una maggioranza parlamentare per garantire la governabilità è consentito, nel rispetto però degli «altri interessi e valori costituzionalmente protetti» in primo luogo la rappresentatività dell’Assemblea parlamentare “sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale”.
L’organo della rappresentanza politica “è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurata dalla Costituzione”. Con i princìpi fondamentali “della funzione rappresentativa dell’assemblea nonché dell’eguale diritto di voto”, la stabilità del governo “obiettivo costituzionalmente legittimo”, non è comparabile: le due esigenze si possono bilanciare solo in misura ragionevole, anche per non violare il principio di eguaglianza del voto.
Ballottaggio senza soglia
Di questo pensiero chiaramente espresso l’Italicum non tiene alcun conto. Con una sovrarappresentazione irragionevole della lista vincente distorce l’esito del voto producendo la “compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare incompatibile con i princìpi costituzionali” inammissibile secondo la Corte. Non è soltanto con la soglia fittizia del 40% che la nuova legge vìola i princìpi costituzionali, ma soprattutto e tanto più gravemente, con l’introduzione di un ballottaggio senza soglia alcuna.
Un altro profilo di censura nella sentenza n. 1/2014 era il sistema delle liste bloccate che sottrae ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti. Neppure questo vizio viene eliminato dall’Italicum nonostante le modifiche introdotte. Ora sono bloccati soltanto i capi-lista dei 100 collegi plurinominali mentre gli altri candidati sono eletti con la doppia preferenza di genere, ma così resta ancora fuori dalla scelta degli elettori un numero assai elevato, senza che venga soddisfatta, almeno, l’esigenza di conoscibilità effettiva dei candidati da parte degli elettori espressamente richiamata dalla sentenza.
Benché deprecate da tutti, non sono state eliminate neppure le candidature multiple che costituiscono una palese dimostrazione di disprezzo verso gli elettori. E dunque, se uniamo ai capilista bloccati (scelti dalle segreterie) la possibilità per i candidati di presentarsi in più collegi – addirittura dieci – riservandosi di scegliere a elezione avvenuta dove collocarsi, è evidente che ogni “conoscibilità” effettiva (presupposto di una effettiva scelta) è in partenza vanificata. Il gioco delle segreterie ancora una volta rimane dominante e nessuna scelta effettiva rimane al cittadino. La rappresentanza politica si riduce davvero a mera finzione.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di luglio 2015 di Patria indipendente, il mensile dell’Anpi

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