di Giacomo Russo Spena
Il Corriere della Sera, allarmato, si domanda in prima pagina: “Quanti Tsipras ci sono in Europa?”. Scrive Francesco Giavazzi: “Quest’anno grazie alla cura Tsipras (la Grecia, ndr) è tornata in recessione”. I commenti, anche da parte di esponenti del centrosinistra, sono severi e senza appelli: “Tsipras ha promesso l’impossibile”, un “anticapitalista coi soldi degli altri”. E poi ancora: populista, sprovveduto. Un Ponzio Pilato. “Un gesto estremo di viltà politica”, l’aver indetto un referendum sulle politiche europee, il prossimo 5 luglio.
Si rispolverano i vecchi cavalli di battaglia – utilizzati per imporre i fallimentari memorandum alla Grecia negli anni scorsi – come l’aver truccato i conti. Secondo la vulgata, la crisi si sarebbe sviluppata per colpa dei greci stessi: un Paese arretrato, statalista, piagato dalle clientele e “fannullone”.
Con le istituzioni europee (e molti media) che hanno colpevolizzato, a volte sottilmente e altre volte meno, un intero popolo (“levantino”) per imporre misure di austerità che invece di curare il malato hanno finito per ucciderlo, o quasi. Eppure, come raccontava Luciano Gallino su Repubblica, “pochi giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo”.
Ci si dimentica di almeno due cose: che la Grecia avesse un problema strutturale era risaputo ben prima che il Paese entrasse nell’euro; e tutte le storture del sistema (dalla corruzione allo statalismo) sono state causate da quella classe politica che ha poi inflitto alla popolazione, su mandato di Bruxelles, misure durissime: socialisti e conservatori, in alternanza e poi in una grande coalizione.
Gli stessi partiti e la stessa classe politica che oggi inveisce contro Syriza, che ha all’attivo sei mesi di governo su 40 anni di ritorno alla democrazia. E che dal 2009 in poi la stessa Grecia è il paese europeo che ha fatto più “riforme” di tutti a livello continentale, con esiti disastrosi: un Pil ridotto del 25 per cento è un dato di guerra, unico in tempi di pace.
Syriza ha vinto le elezioni lo scorso gennaio, volendo incarnare una speranza di cambiamento e la discontinuità rispetto ai diktat dell’Unione Europea. Lo ha fatto con un programma di rinegoziazione con la Troika. Così è iniziato lo scontro tra due visioni, due “ideologie” contrastanti. Davide contro Golia. Una partita ad alta tensione dove la posta in gioco è diventata sempre più alta.
Come spiega Christos Mantas nell’intervista rilasciata a MicroMega, il governo greco ha cercato la via della mediazione aprendo a provvedimenti (privatizzazioni, innalzamento età pensionabile) estranei al programma originario di Syriza. La risposta della Troika è stato l’ultimatum: un piano ancor più stringente e sbilanciato che di fatto avrebbe favorito i ceti più ricchi del Paese. Un ennesimo memorandum. Lo scalpo di Tsipras per dimostrare a tutti come non sia possibile riformare e modificare la rotta dell’Europa.
La risposta di Atene è stata quella di far decidere i greci stessi. Di fronte a un vicolo cieco, senza margini di manovra, piuttosto che rompere un patto con i propri elettori, Tsipras ha preferito lanciare un messaggio ai propri connazionali: fin dove siete disposti a spingervi? Tra l’altro, sin dal programma elettorale del 2012, Syriza prometteva ai suoi elettori – testualmente – di “sottoporre a referendum vincolanti i trattati e altri accordi rilevanti europei”.
I sondaggi, ad oggi, dicono che il “sì” al pacchetto europeo vince sui “no”. La vittoria dei primi significherà, probabilmente, un cambio di governo, o comunque un rimpasto, escludendo i settori più radicali di Syriza. Ipotesi caldeggiata dai creditori, stufi di trattare con i “piantagrane”. Una vittoria dei “no” da un lato rafforzerebbe Tsipras, dall’altro rischierebbe di far saltare il banco in modo definitivo. “Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra – ragiona Paul Krugman, su Repubblica – con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, e lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la Troika lo porti a un gesto estremo”.
Se Angela Merkel e Jean Claude Junker, oggi, si dichiarano disponibili a nuovi negoziati con la Grecia dopo il 5 luglio è perché sanno che una Grexit non conviene a nessuno. Non la vuole Tsipras, non la vogliono i “mercati”, dato che potrebbe significare l’implosione, definitiva, dell’eurozona. E ovviamente della moneta unica, con conseguenze indecifrabili. Un salto nel buio per tutti.
In tutto questo, l’Italia dove sta? Il premier Matteo Renzi, dopo il famoso regalo della cravatta a Tsipras e i molti vibranti richiami contro l’austerità, si è espresso con un tweet: “Non è un derby tra Commissione europea e Tsipras, ma una scelta tra euro e dracma”. Una semplificazione che non corrisponde alla realtà e che, appunto, aggiunge confusione ad una situazione già di per sé ingarbugliata.
E si scoprono gli altarini di Renzi, le sue storielle sulla fine dell’austerity e l’inizio della crescita sotto il semestre a direzione italiana. Menzogne. Quel premier – che aveva spacciato il quantitative easing di Mario Draghi come l’inizio del cambiamento – ora sembra schierato con Merkel e la Troika. Senza capire che in caso di Grexit, potremmo essere noi le prossime vittime dell’austerity.
Sterile anche l’accusa di chi dice che dietro Tsipras ci sono logiche nazionaliste come dimostrerebbero gli attestati di stima di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Demistificazioni. Il blocco degli euroscettici non è altro che l’altra faccia della medaglia della Troika e delle sue politiche di austerity.
Alla lotta del “basso vs alto” (quella contro i mercati, gli speculatori e i poteri forti) risponde con quella tra “basso vs basso”: la guerra tra poveri e il ritorno dei feroci patriottismi. In Grecia, Syriza ha arginato l’ascesa dei nazisti di Alba Dorata. Quindi due strade ben alternative. E in campo non c’è il nazionalismo ellenico perché la battaglia di Tsipras, da sempre, è europeista. Nello stesso momento, si rivendica però sovranità popolare e di decidere il come restituire i soldi del debito. Quel debito così alto a causa di speculazioni e interessi privati. E sempre quel debito che la Germania dopo la Seconda Guerra mondiale non ha pagato grazie alla Conferenza di Londra del 1953.
Syriza finora ha rappresentato un’anomalia nell’intero panorama politico europeo. Il governo Tsipras è stato il primo che, apertamente, ha messo in discussione i dogmi dell’austerità neoliberista condivisi da centrodestra e centrosinistra degli ultimi venti anni. Per questo fa così paura a molti: rappresenta un precedente pericoloso per l’establishment.
In gioco, infatti, non c’è una moneta né un aiuto a una nazione che ha un peso economico pari a quello della provincia di Vicenza. Di mezzo c’è l’idea stessa di Europa che si ha in mente per il presente e per il futuro. Il braccio di ferro è tutto politico e gli indici economici diventano un pretesto per non parlare di ciò che conta davvero: cioè la vita, i diritti dei cittadini europei. E la democrazia, se davvero ha ancora un senso.
Per questo sarebbe un errore lasciare solo Tsipras. E l’ora di una nuova fase di mobilitazione europea con l’augurio che a novembre, in Spagna, vinca Podemos e a marzo lo Sinn Fein in Irlanda. Un contagio. Con la mobilitazione di movimenti, sindacati e parti sociali, non c’è altra speranza per la sopravvivenza dell’Europa. Il 5 luglio OXI significa democrazia.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 29 giugno 2015