#DirittoDiDimora: cultura e libertà di pensiero contro la repressione delle proteste

27 Maggio 2015 /

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dei Docenti Preoccupati
Nelle ultime settimane si è registrata a Bologna un’escalation repressiva nei rapporti tra istituzioni e movimenti di protesta. Ne sono testimonianza una serie di provvedimenti giudiziari emessi nei confronti di attivisti e studenti, quali divieti di dimora, denunce, arresti domiciliari, ma anche la richiesta di sgombero dell’ex palazzina Telecom dove vivono molte famiglie migranti con minori, le cariche della polizia e la stigmatizzazione pubblica delle proteste in occasione delle presenze della ministra Stefania Giannini, del presidente del consiglio Matteo Renzi e, prima ancora, della ministra Marianna Madia, invitata all’inaugurazione della scuola della pubblica amministrazione dell’Alma Mater.
Tutto ciò è avvenuto in perfetta sinergia con larga parte della stampa cittadina, con i vertici di UniBo e con l’amministrazione comunale guidata dal Partito Democratico, tanto da far ipotizzare che quest’ulteriore giro di vite, a cui da più parti si plaude, sia funzionale anche al rettore uscente Ivano Dionigi per rafforzare una sua possibile candidatura a Palazzo d’Accursio.
Se l’escalation non ha investito solo l’università, tuttavia non ci sono dubbi che abbia individuato proprio nell’università uno dei suoi obiettivi strategici. Siamo docenti dell’Università di Bologna, e il fatto stesso che studenti del nostro ateneo vengano allontanati dal luogo in cui vivono e studiano, o siano raggiunti da provvedimenti giudiziari, provoca in noi una profonda inquietudine.

Ancora di più, però, ne suscita l’atteggiamento della governance accademica, che da anni mostra una totale incapacità di dialogo, logica conseguenza di strategie di colpevole sordità e di chiusura nei confronti delle istanze manifestate e dei molteplici segnali di disagio espressi sia dai collettivi studenteschi, sia dalle altre componenti del mondo universitario. L’Ateneo, fin dai tempi dell’approvazione della legge 240/2010 e della conseguente revisione statutaria, ha mostrato una pulsione irrefrenabile a soffocare ogni voce critica, contribuendo di fatto – con il suo atteggiamento perennemente arroccato e verticista – a radicalizzare le tensioni, anziché interrogarsi sulle ragioni dei conflitti per individuare forme di mediazione.
Quando le soluzioni di problemi politici e sociali vengono demandate alle forze dell’ordine e alla procura, si registra sempre una sconfitta per tutte le parti in causa. Entrare nel merito delle singole accuse rivolte agli studenti dei collettivi universitari non è compito nostro, ma dei giuristi, anche se molto ci sarebbe da recriminare sulla appropriatezza e lungimiranza di talune loro iniziative, politicamente miopi e spesso molto discutibili nelle modalità di azione. Ma una considerazione generale è possibile, anzi necessario, farla.
Siamo ormai in una fase nella quale tanto la classe politica quanto le istituzioni si sottraggono a qualunque dialettica democratica, manifestando una volontà sempre più sistematica di evitare il confronto politico, di ricondurre ogni domanda di democrazia, di partecipazione, di spazi, a una questione di ordine pubblico, di stigmatizzare qualunque forma di dissenso e le pratiche in cui si esprime (la vicenda del ddl sulla “buona scuola” ne è uno degli esempi più evidenti). Che anche l’università faccia propria questa volontà è come minimo inquietante, data quella che dovrebbe essere la sua vocazione più autentica: apertura al dialogo, all’ascolto, capacità di interpretare e di rispondere ai segnali provenienti dal mondo reale.
I docenti e gli intellettuali che hanno firmato l’appello #dirittodidimora, e che oggi sono da più parti oggetto di linciaggio mediatico, forse chiedono anche questo: che fuori e dentro l’università la cultura torni nel più ampio spazio della politica, della cosa pubblica, che si ricominci a discutere di libertà di movimento (delle persone, non solo del denaro e delle merci), di libertà di pensiero, di conflitti sociali, generazionali, e non solo di decreti rettorali, di quality assurance e di crediti. Se è così, a dispetto di quanto alcuni possono pensare, sanno molto bene quello che fanno.

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