di Anna Angelucci
Parlare di scuola in questi giorni non è più questione da ‘addetti ai lavori’. Non è più solo materia sindacale, o attività giornalistica, o passatempo da intellettuali.
Siamo tutti coinvolti, tutti parte in causa, non come insegnanti, non come presidi, non come studenti né come genitori, non come politici. Ma come cittadini. E tutti, come cittadini, dobbiamo assumerci le responsabilità di una scelta: nel disegno di legge del Governo non ci sono solo articoli che rideterminano, peggiorandolo, il governo della scuola. Nel disegno di legge di questo Governo scellerato è scritta la morte della scuola pubblica, la morte della libertà di insegnamento e di apprendimento, la morte della scuola della Costituzione della Repubblica italiana.
Non aderire al progetto del Governo-Partito, che spaccia per riforma l’esasperazione in chiave padronale dell’autonomia scolastica, non significa essere ostinatamente passatisti. Dissentire dalla retorica stucchevole con cui questo Governo-Partito mente sull’ascolto, mente sulla discussione critica, mente sui dati della mobilitazione non significa essere “squadristi”. Gli squadristi uccidevano gli antifascisti; noi, semplicemente – mentre insegniamo – parliamo, scriviamo, argomentiamo, proponiamo alternative.
Dissentire sulle modalità di una valutazione delle scuole basata sull’imposizione coatta di test standardizzati che in tutto il mondo sono ampiamente e autorevolmente criticati per i loro limiti scientifici e per le implicazioni negative sull’attività didattica non significa essere ignobili “sabotatori” che vogliano a tutti i costi mantenersi nella certezza della loro autoreferenzialità. Significa esercitare il pensiero critico di cui disponiamo, significa mobilitare tutte le nostre conoscenze, le nostre competenze e le nostre esperienze per rifiutare l’applicazione di uno strumento semplicemente sbagliato. A scuola si chiama ‘saper fare’ ed è quello che chiediamo ogni giorno ai nostri studenti.
In piazza ci sono insegnanti che credono nella scuola pubblica come strumento di emancipazione culturale e sociale, che non hanno mai smesso di approfondire, di aggiornarsi, di interrogarsi su come garantire la qualità della scuola ai propri studenti a dispetto del discredito che ci ha sommerso nell’ultimo ventennio, a dispetto dei tagli che ci hanno soffocato, dei soffitti che ci sono crollati sulla testa, delle classi sempre più affollate in cui ci hanno stipato insieme ai nostri studenti. Siamo quelli che hanno continuato a insegnare storia nonostante la diminuzione delle ore di storia; quelli che hanno continuato a insegnare la geografia nonostante la cancellazione di questa disciplina; quelli che insegnano “Cittadinanza e Costituzione” nonostante la riduzione del monte ore delle materie umanistiche nelle scuole di ogni ordine e grado. E nonostante la Costituzione venga calpestata ogni giorno dai rappresentanti delle istituzioni.
In piazza ci sono gli insegnanti che sanno che le peggiori leggi sulla scuola e sull’Università nell’ultimo ventennio le ha fatte il Partito Democratico: la legge sull’autonomia scolastica, che – con l’aggravio della modifica del titolo V della Costituzione che ha ‘regionalizzato’ l’istruzione – ha frantumato l’unitarietà del sistema scolastico, trasformando le scuole in ‘progettifici’ e deterministicamente accentuando quelle differenze territoriali e culturali che, al contrario, la Costituzione chiede proprio alla scuola di livellare, per garantire le pari opportunità; la legge sulla parità scolastica, che ha dissennatamente assimilato le scuole private al sistema d’istruzione pubblico implicandone il finanziamento economico da parte dello Stato in spregio al dettato costituzionale, per arrivare all’aberrazione attuale che vede le scuole private paritarie finanziate ogni anno con centinaia di milioni di euro di denaro pubblico mentre quelle statali sopravvivono oramai solo grazie al contributo volontario, privato, delle famiglie; il 3 + 2 all’Università che, volendo stoltamente semplificare i percorsi, ha raggiunto il duplice, paradossale obiettivo di allungare e, nel contempo, imbarbarire i livelli della formazione superiore.
Basterebbe questo piccolo esercizio di memoria per capire che questo partito, ora al Governo, non è capace. Che andrebbe diffidato per sempre dall’occuparsi di istruzione. Ma il nostro – con buona pace di Roger Abravanel e dei suoi adepti, che sembrano non averlo ancora capito – è il Paese della meritocrazia. Ovvero il paese in cui il ‘governo’ (politico) del merito fa sì che vengano cooptati ogni volta i meno meritevoli.
Che so, un sottosegretario all’Istruzione che non è neppure laureato. Una responsabile dell’Istruzione del partito di Governo che in televisione vagheggia la “rottamazione delle discipline” senza alcuna consapevolezza, non dico epistemologica, ma almeno logica delle proprie affermazioni. Una ministra dell’Istruzione che, da docente, firmava documenti contro i sistemi di valutazione quantitativi e da responsabile del dicastero deplora aspramente chi li critica. Un Presidente del Consiglio impulsivo e compulsivo, che preferisce cimentarsi in un corpo a corpo muscolare con centinaia di migliaia di lavoratori, portando scuola e Parlamento a livelli di scontro parossistici piuttosto che fare semplicemente, e ben più intelligentemente, il suo dovere: assumere tutti gli insegnanti come impone la sentenza della Corte europea e abbandonare l’idea che in una scuola comandata dai presidi i suoi figli incontrerebbero insegnanti migliori. Perché al contrario, imparerebbero la servitù, il conformismo, la piaggeria, l’utilitarismo, l’omologazione, l’irresponsabilità, la miseria culturale e morale.
Che Governo e Parlamento si fermino. Che i cittadini italiani capiscano: riformare la scuola non può significare rottamare la libertà.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 18 maggio 2015