di Loris Campetti
(Questa intervista sarà pubblicata il 24 aprile in versione cartacea e online sul giornale svizzero di critica sociale Area, edito dal sindacato Unia)
C’è chi lo vedrebbe volentieri alla guida del partito-che-non c’è, a sinistra del Partito democratico che ha assunto il punto di vista dei poteri forti dell’internazionale liberista e della Confindustria, per riportare in Parlamento una rappresentanza del lavoro, dato che oggi i lavoratori non ha più sponde partitiche. È diventato un volto noto nella società italiana e per molti un punto di riferimento.
Buca lo schermo ed entra in sintonia con la parte pulita e bastonata del paese perché parla il linguaggio delle persone che vuole rappresentare, di cui condivide le sofferenze. Alla Fiom non è arrivato dalle scuole quadri della sinistra ma dalla fabbrica. Landini saldatore ha fatto la sua prima battaglia sindacale in un’azienda cooperativa, e al dirigente coop, quando le coop non erano ancora imputate in mille processi giudiziari, che gli diceva: “io e te abbiamo in tasca la tessera dello stesso partito, il Pci”, non puoi esercitare qui il conflitto, lui rispondeva: “Abbiamo la stessa tessera ma io a saldare all’aperto ho freddo lo stesso”.
Maurizio Landini è ostinato, ha in testa il sindacato e non il partito. Un sindacato, va chiarito subito, da rifondare per essere all’altezza dei tempi. Oggi “la maggioranza dei lavoratori non si riconosce nelle nostre strategie e persino tra i lavoratori dipendenti solo una minoranza ha in tasca la tessera di un sindacato”. La frantumazione del mondo del lavoro, lo scatenarsi del dumping sociale e il rischio sempre più concreto del dilagare della guerra tra poveri, la cancellazione dei diritti e il progressivo inaridimento della democrazia, impongono una svolta.
Lo pensa la Fiom che ha lanciato un macigno nello stagno della Cgil, proponendo più democrazia e soprattutto più apertura alle persone che soffrono per le politiche liberiste sposate dal governo Renzi. propone a chi il lavoro non ce l’ha più o non riesce ancora ad averlo, a chi pur lavorando è diventato povero, a chi ha la fortuna di avere un contratto regolare e a chi è precario, sfruttato dalle regole del moderno capitalismo anche se è autonomo o è stato costretto a farsi una partita Iva. Il sindacato dovrebbe aprirsi a queste pluralità e non limitarsi a tutelare i lavoratori dipendenti nel rapporto con l’impresa ma assumere l’intera questione sociale.
L’operaio impoverito dalla crescita delle diseguaglianze dev’essere sostenuto quando rimane senza casa, quando non ha più i soldi sufficienti a curarsi o a mandare a scuola i figli. E la Fiom, di conseguenza, lavora alla costruzione di una “Coalizione sociale” con le associazioni che si battono in difesa della Costituzione, o contro quella fetta enorme di economia nelle mani della criminalità organizzata, o più semplicemente per la solidarietà tra le persone. Emergency, Libera, Arci, rappresentanze professionali, intellettuali, studenti, giuristi, sono soltanto alcuni dei soggetti con cui la Fiom sta confrontandosi per costruire un progetto comune. Perché non c’è alternativa all’orizzonte politico dominante e dominato dal pensiero unico se non si costruisce un’alternativa sociale, come dice Stefano Rodotà, che non crede, così come non crede Landini, a una “ripartenza” basata sull’assemblaggio di ciò che resta dei partitini a sinistra del Pd.
Il gruppo dirigente della Cgil scalcia all’idea di mettere in discussione il suo modo d’essere e rappresentare il lavoro, non vuole rinunciare a dei privilegi cresciuti nell’antica stagione della concertazione che peraltro, con l’accentramento autoritario in corso, sono solo una chimera. Si può dire che la Fiom non vuole snaturare il sindacato facendo politica, bensì salvarlo: insomma, la vostra è un’opera di misericordia? Landini sorride e risponde.
Si parte dall’ammissione dello stato di crisi del sindacato, bisogna riflettere sul fatto che la maggioranza di chi lavora non è iscritta e non si riconosce nelle strategie sindacali. Ciò si aggiunge alla crisi della rappresentanza politica: nei partiti presenti in Parlamento non c’è più una rappresentanza del lavoro. Ti ricordo che nel 1970 il Parlamento, sotto la spinta delle lotte operaie e sindacali, votò quello Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori che ora Renzi ha sterizzato e vuole addirittura cancellare. Il Pci, che si definiva il partito dei lavoratori, si astenne contestando l’esclusione della sua applicazione alle aziende con meno di 15 dipendenti. E ti ricordo che partiti come la Dc e il Psi lo votarono, a dimostrazione che la rappresentanza del lavoro e il rispetto per la dignità dei lavoratori erano trasversali. Oggi è prevalsa la cultura liberista che riconosce il solo primato del mercato e i desiderata delle imprese.
Non sono solo i lavoratori dipendenti a non avere più una rappresentanza politica.
Parlare solo di lavoratori dipendenti, infatti, non è più sufficiente. Oggi la svalorizzazione del lavoro riguarda anche forme di lavoro autonomo e professionale. La filosofia prevalente – qui, in Europa e nel mondo – punta alla competizione sui diritti e sui salari di chi lavora, e il ruolo delle multinazionali in questa strategia è dominante. Da qui nasce l’esigenza di non chiuderci in una dimensione aziendalistica come sindacati di mestiere, al contrario il sindacato dev’essere un soggetto politico con un progetto, un’idea di società in cui siano riconosciuti i diritti dei cittadini. Diritti del e al lavoro, alla formazione, allo studio, alla salute, alla pensione, a un reddito anche per chi è disoccupato, insomma allo stato sociale. Dobbiamo essere promotori di un’azione opposta ai processi di frantumazione cresciuti a livelli inediti in questi anni, violando il diritto costituzionale per cui a parità di prestazione lavorativa devono corrispondere stessi salari, orari e diritti. Oggi c’è chi lavora per 2 o 3 euro l’ora, addirittura per 1 euro ad articolo nelle redazioni di alcuni importanti giornali.
Di fronte a un tale scenario apocalittico, cosa dovrebbe fare un sindacato rifondato?
Lavorare a una ricostruzione sociale, dando al lavoro un ruolo centrale. Il governo, più ancora di quelli che l’hanno preceduto, assume i diktat di Confindustria per superare i contratti nazionali e imporre la libertà di licenziamento. Sul piano politico si sta modificando la Costituzione e la legge elettorale di Renzi è decisamente peggiore della legge truffa che gli italiani riuscirono a fermare negli anni Cinquanta. Lo scrive persino Eugenio Scalfari. All’accentramento del potere intorno all’esecutivo si accompagna la rapida riduzione degli spazi di partecipazione dei cittadini.
La società italiana è sconfitta ma non pacificata. Dove vedi embrioni di resistenza al restringimento in atto della democrazia?
Parto dal mio specifico: da settembre a dicembre, grazie soprattutto alla Fiom e alla Cgil, gli scioperi e le manifestazioni hanno reso esplicito che il governo Renzi non ha il consenso della maggioranza delle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare. Renzi ha abolito anche la consultazione dei sindacati e nega qualsivoglia ruolo alle organizzazioni democratiche. I vincoli dell’Europa e della trojka sono stati fatti propri dagli ultimi governi italiani, più ancora che negli altri paesi, fino all’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, al fine di ridisegnare le relazioni sociali, sindacali e industriali. Il modello Fiat caro a Marchionne, che nel 2010, ai tempi del referendum truffa di Pomigliano (lavoro ipotetico in cambio di diritti concreti, ndr) veniva raccontato dalla politica come caso unico e irripetibile, è diventato la proposta della Confindustria e addirittura del governo Renzi.
È vero, ma per fermare questo tsunami ci vorrebbero dei ciclopi…
È proprio per impedire il processo che mira a cancellare il diritto delle persone a coalizzarsi per difendere i propri interessi e giocare un ruolo da protagoniste che abbiamo lanciato ai movimenti, alle associazioni e ai singoli che si battono in difesa dei diritti costituzionali la proposta di trovare le forme e le modalità per definire campagne e pratiche di giustizia sociale da realizzare nei territori e nel Paese. È quel che abbiamo chiamato “coalizione sociale”, e ti ricordo che lo slogan dell’ultima grande manifestazione in piazza del Popolo a Roma era “Unions”.
Le critiche della segretaria della Cgil Susanna Camusso sembrano rovesciare il senso della carta d’identità della Fiom: sindacato indipendente (dai padroni, dai partiti e dal governo). Siete accusati di fare politica pretendendo quasi di trasformare il sindacato in partito.
Chi ha capito il senso della nostra proposta lo teme, ha paura che l’azione unitaria di tanti soggetti sociali voglia o possa delegittimare o chiudere in gabbia l’iniziativa sindacale classica, come se il nostro fosse uno dei tanti esempi di trasformismo politico. Invece la coalizione sociale vuol vivere non in competizione o in contrasto con i partiti esistenti, ma fuori da essi, perché l’obiettivo è la ricostruzione delle basi della partecipazione delle persone e delle associazioni democratiche alla vita politica.
Come evitare che la pregevole iniziativa della Fiom si risolva in una pura solidarietà tra gruppi dirigenti?
Con la pratica unitaria nei territori, e i primi segnali che ci arrivano sono positivi. A partire dal terreno sindacale vogliamo offrire un tavolo di confronto su e tra tutte le forme di lavoro. È necessario un nuovo Statuto dei lavoratori che tenga conto della complessità delle figure professionali e contrattuali e non, sapendo che il liberismo tende a omogeneizzare al lavoro vincolato anche altre tipologie, vere o fasulle che siano. L’eguaglianza non può basarsi sulla concessione a tutti delle stesse cose ma deve tener conto della diversità. Prendi la pensione: si è imposto un allungamento dell’età lavorativa sostendo che è aumentata l’aspettativa di vita delle persone. Che però non è uguale per tutti, di conseguenza penso che dovrebbe andare in pensione prima chi ha svolto i lavori più duri. Lo stesso dicasi per gli orari che non possono essere uguali per un turnista e per un ricercatore. Anche il sacrosanto diritto alla formazione non può che essere commisurato al lavoro che fai. E ci sono cose del passato conquistate grazie alle lotte operaie e purtroppo finite nel dimenticatoio, come il diritto alle 150 ore di studio, che ho in mente di inserire nella prossima piattaforma contrattuale.
L’operaio non è il mero venditore di forza lavoro, ha una sua vita complessa come complessi sono i suoi bisogni. Questa consapevolezza è alla base della coalizione sociale?
Il diritto alla casa e alla salute non è garantito a tutti, se sei povero non puoi curarti e far studiare i tuoi figli, e ripeto che oggi si è poveri anche lavorando. Questo ci consente di riconoscere come interlocutori i movimenti e le associazioni che si battono per l’universalità di questi diritti mettendo in pratica esperienze di solidarietà e inclusione sociale, così come interlocutrici sono le associazioni impegnate contro la criminalità organizzata che occupa una fetta enorme di economia reale. Altre bestie pericolose sono la corruzione dilangante e l’evasione fiscale.
Torniamo alla riforma del sindacato: da dove deve partire?
Dal superamento di decine di contratti nazionali, verso un unico contratto per tutti i lavori industriali, capace di tutelare tutte le forme di lavoro presenti. Sono anche convinto che sia ineludibile ampliare lo spazio decisionale dei lavoratori e dei delegati da loro eletti nelle scelte sindacali, compresa l’elezione del segretario generale.
La democrazia nel lavoro è storicamente legata alla sua organizzazione, ma anche al modello di sviluppo che si ha in mente.
Per creare lavoro oggi bisogna costruire un diverso modello di sviluppo, decidendo dove, come, cosa produrre nella tutela dell’ambiente dentro e fuori dalle fabbriche. Dunque vanno coinvolte nelle scelte sindacali anche forze ambientaliste e comunque associazioni non legate direttamente al lavoro dipendente. Solo così il sindacato eviterebbe il rischio di essere ricacciato su posizioni aziendaliste e corporative e solo così si potrebbe affermare sul piano culturale il lavoro come valore generale.
La tua ha le caratteristiche più di una proposta confederale che di un sindacato di categoria. Non dovrebbe essere la Cgil in prima persona ad agire questo cambiamento, guardando avanti e al tempo stesso riscoprendo lo spirito solidale delle origini, aprendo porte e finestre delle Camere del lavoro?
E infatti questa proposta l’abbiamo pensata come autoriforma della Cgil, che ha bisogno di prendere aria e fuori da noi c’è anche tanta aria buona.
L’Italia, pur con tutte le sue specificità, non è che uno dei punti d’attacco del liberismo. Lo stesso vento soffia in tutt’Europa, è difficile pensare al cambiamento in un paese solo.
La discussione va aperta in tutto il continente, dove è stata cancellata la sovranità dei singoli stati e il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati è figlio di un’Europa costruita soltanto intorno alla moneta. Il potere finanziario ha ridotto e condizionato tutti gli spazi politici. Se dire queste cose, per l’Italia e per l’Europa vuol dire fare politica, allora è vero: la Fiom fa politica. Ed è soggetto politico non da oggi ma dal giorno della sua nascita 114 anni fa. Questo è vero proprio a partire dall’autonomia e dall’indipendenza della Fiom che avanza la sua proposta di coalizione sociale all’intero mondo del lavoro.
L’Italia non è la Grecia né la Spagna. Quali sono le differenze e le analogie con i processi che hanno portato Syriza al governo ad Atene e fanno crescere la presenza di Podemos a Madrid?
In quei paesi il peso delle organizzazioni sindacali è decisamente ridotto rispetto all’Italia e tanto Syriza quanto Podemos sono state costruite fuori dai sindacati, con l’idea di governare i rispettivi paesi. E in Grecia Alexis Tsipras c’è riuscito vincendo la sua prima battaglia. La Fiom, così come la Cgil, non è una forza politica, noi non vogliamo fare un partito né candidarci a una competizione elettorale. Ma partiamo dall’analisi di processi comuni in atto in Europa che hanno fatto crescere le diseguaglianze riducendo al contempo gli spazi di democrazia. Da versanti differenti abbiamo un orizzonte comune: la ricostruzione della solidarietà tra le persone. Nello specifico italiano, credo anche che la battaglia a difesa dei valori e dei diritti sia la conditio sine qua non per rifondare la politica. Il nostro contributo sta nella rifondazione di un sindacato confederale generale, senza cui neppure una grande organizzazione come la Cgil avrebbe un futuro.