La scelta di Karim: "Ho visto la guerra a Kobane"

17 Aprile 2015 /

Condividi su

di Sergio Sinigaglia
“Essere un rivoluzionario per me significa essere là a condividere quella pratica di resistenza, guardando in faccia la realtà senza distogliere lo sguardo, sconfiggendo la paura. Sono partito per Kobane. Adesso mi aspetta un breve periodo di addestramento, dopo il quale farò quello che mio padre insieme a milioni di partigiani in Italia e nel mondo hanno fatto per difendere la libertà e la democrazia: combatterò in armi i fascisti del califfato nero”.
È un passo della lettera con cui Karim Franceschi giovane militante del centro sociale “Arvultura” di Senigallia, tre mesi fa annunciava la scelta di tornare a Kobane, dove era già stato per portare aiuti alla popolazione locale, per combattere a fianco della resistenza anti-Isis. Dopo tre mesi Karim è tornato e ha raccontato la sua esperienza in una conferenza stampa.
“Sono passato, sia all’andata che al ritorno, per il confine della Turchia, cosa non semplice. Come sono arrivato mi hanno interrogato per verificare che non fossi una spia. Poi ho fatto quattro giorni di addestramento e il quinto sono stato mandato al fronte”. Karim naturalmente non aveva mai imbracciato un’arma e si è trovato calato in una dimensione di guerra. “Noi, per fortuna, siamo desensibilizzati rispetto al conflitto militare, avere paura è normale. Ma se non hai paura non hai nemmeno coraggio”. Karim racconta la sua dura esperienza con semplicità, profonda umanità.

Per dare l’idea del contesto terribile in cui si è trovato racconta che anche a lui, come a tutti gli altri, è stata consegnata una granata da usare nel caso fossero finiti nelle mani dei miliziani del Califfato Nero. Ma la maggior parte della narrazione la spende per sottolineare il grande valore dell’esperienza della libera comunità del Rojava. Una realtà dove le donne sono libere, ricoprono ruoli in tutta l’organizzazione sociale e politica, dalla cariche di base a quelle più alte: “In una società come quella siriana dove le mogli mangiano in cucina per non disturbare i mariti, vederle comandare i reparti militari o governare interi territori è una cosa unica”.
Tra i valori che Karim ha potuto verificare durante la sua permanenza a Kobane, oltre al femminismo e al profondo rispetto nei confronti delle donne, l’ecologia e la valorizzazione delle differenze. “Non si tratta solo di voler salvaguardare l’ambiente, abbiamo di fronte una specie di”ecologia politica” dove al centro c’è la consapevolezza dell’importanza delle relazioni sociali”. Per quanto riguarda la diversità nel Rojava c’è una pluralista di culture e tutte sono sullo stesso piano. E a proposito di pluralità Karim racconta come abbia combattuto a fianco di tanti volontari provenienti come lui da altri Paesi. “Nel mio ambito in prevalenza erano turchi, ma c’erano anche compagni tedeschi, e io sono diventato grande amico di un ebreo americano”.
A chi gli chiede se pensa di tornare risponde di no, di “aver fatto la sua parte”. Alla base di una scelta così inusuale si sono intercciati aspetti personali e valori ideali. Sicuramente la figura del padre partigiano durante la Resistenza ha influito non poco. Karim praticamente non lo ha conosciuto e la figura paterna negli anni della crescita è stata un punto di riferimento costante. Poi la consapevolezza che laggiù, in quello spicchio di Medio Oriente, si sta costruendo qualcosa di unico, “un progetto socialista” come lo definisce lui di alto valore. E infine il rapporto, durante il primo viaggio, con la comunità locale, il vedere che persino i ragazzini erano in prima fila per resistere all’invasore jihadista.
In questi giorni alcuni amici-che non mi hanno nascosto perplessità di vario genere sulla scelta di Karim. Certamente anche per la nostra generazione che è crescita nel mito non solo della Resistenza, ma anche in quello delle lotte di liberazione, dai vietcong ai fedayn, ai tupamamaros, non è facile capire come nel 2015 un giovane di 25 anni possa andare a rischiare la vita a migliaia di chilometri di distanza. In realtà, come è noto, ci fu chi anche tra la nostra generazione, una minoranza, si arruolò nella propria guerra privata contro lo Stato. Una scelta disperata, specchio della sconfitta che non si voleva vedere, scelta che innescò una spirale allucinante che sommerse tutto e tutti. Scelta non a fianco di un popolo, ma contro la maggior parte del popolo.
La scelta di Karim è invece dentro un solco storico che riporta alla guerra civile spagnola quando tanti antifascisti europei, italiani in primis, andarono a combattere contro i franchisti, alla resistenza contro il nazifascismo, che non fu, è bene ricordarlo, solo armata ma si manifestò in mille modi e coinvolse tanta gente incapace di imbracciare un’arma. Modalità di resistenza nonviolenta che possiamo trovare anche in altre esperienze storiche come ha evidenziato il bel libro di Anna Bravo “La conta dei salvati”.
In ogni caso quello sopra descritto è un patrimonio che oggi vive in forma sicuramente ridotta, ma significativa, in coloro che hanno lasciato il loro paese per andare a sostenere l’eroica resistenza di una piccola comunità, oasi democratica in un Medio Oriente autoritario. E quindi di fronte a giovani come Karim non si può non provare ammirazione e anche un po’ di commozione.

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati