La tortura in Italia? Quarant'anni di finti tonti

13 Aprile 2015 /

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di Sergio Cararo
La sentenza della Corte Europea che ha condannato l’Italia per tortura sul caso della macelleria messicana alla Diaz nel luglio 2001 a Genova, apre una breccia che non deve essere rinchiusa. È una breccia che attiene alla enormi zone d’ombra della storia recente del nostro paese, quelle di cui si è parlato poco e soprattutto male. Non perché mancasse la materia, anzi e purtroppo ce n’è in abbondanza, ma perché la ragion di stato ha spesso sigillato – anche con l’arresto dei giornalisti troppo curiosi – ogni tentativo di portare alla luce quella che non è stata una “eccezione” ma che per interi periodi è stata “regola” non scritta.
Nel pdf che potete aprire cliccando su La tortura in Italia, troverete un libro bianco – oggi introvabile – pubblicato tra mille peripezie nel 1982 da un gruppo di militanti, avvocati, familiari di detenuti, che spezzarono il black out sull’uso della tortura nel pieno degli “anni di piombo”. Furono mesi nei quali le denunce sui casi di tortura contro i militanti dei gruppi armati arrivavano numerose, in un clima plumbeo caratterizzato da arresti di massa, centinaia di rifugiati politici in Francia, divieti di manifestazione, persecuzioni e linciaggi mediatici contro i militanti della sinistra ancora attivi e sparutissimi gruppi di “garantisti” che diedero battaglia contro gli effetti dello “stato di emergenza” decretato nei fatti dal 1977 e consacrato negli anni successivi.
Il libro bianco sulla tortura in Italia prende le mosse con le prime notizie, come quella di Giuseppe Vesco che nel 1976, sotto tortura “confessò” l’uccisione di due carabinieri della caserma di Alcamo (Sicilia) accusando anche altre persone (Giuseppe Gullotta, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli), torturate a loro volta, che passarono 22 anni di carcere – come Gullotta – per poi scoprire che erano stati accusati ingiustamente dell’uccisione dei due carabinieri. Giuseppe Vesco, sempre nel 1976 fu poi trovato impiccato nella sua cella. Trenta anni dopo, nel 2006, un carabiniere Giuseppe Ollino rivelò che le confessioni erano state estorte con la tortura facendo riaprire il processo.

Il libro bianco, pubblicato nel 1982, ovviamente non disponeva di questa testimonianza emersa ventidue anni dopo, ma non aveva avuto bisogno di questo per aprire quel lungo dossier sulla tortura che riuscì fortunosamente ad essere poi pubblicato.
C’era poi stato il caso di Enrico Triaca, arrestato nel 1978 con l’accusa di essere il “tipografo” delle Br, sottoposto alla tortura con il metodo del water boarding. Anche questo caso di tortura venne ammesso con una sentenza solo nell’ottobre 2013 (trentacinque anni dopo) e, paradossalmente, a causa di un eccesso di arroganza del procuratore capo di Roma nel 1978 – il dott. Achille Gallucci – il quale di fronte alla denuncia della tortura da parte di Triaca lo denunciò a sua volta per calunnia nei confronti degli agenti di polizia, aprendo così – inconsapevolmente – un fascicolo giudiziario che altrimenti non sarebbe mai stato aperto ma archiviato.
Il “picco” delle torture venne raggiunto tra il 1981 e il 1982 nei confronti dei militanti delle Br o di altri gruppi clandestini che venivano arrestati. In particolare fu con il sequestro del generale statunitense Dozier, comandante di quella base militare Ftase di Verona – la base statunitense da cui il giudice Salvini ci dice che partirono molte delle operazioni stragiste in Italia. Nel tentativo di ottenere informazioni sul luogo dove era tenuto sequestrato il gen. Dozier, furono rotte tutte le formalità e la tortura esplose come pratica ricorrente e, nei fatti rivendicata dallo Stato nelle figure del ministro degli Interni, il quale negò in Parlamento le evidenze che andavano emergendo, potendo contare sulla complicità dell’opposizione (quel Pci del partito della fermezza). Le torture non risparmiarono neanche le donne prese prigioniere.
Nel 1982 due giornalisti , Piervittorio Buffa de L’Espresso e Luca Villoresi de La Repubblica, vennero arrestati a causa dei servizi pubblicati sulle torture inflitte ai militanti delle Br per non aver rivelato la loro fonte (che poi si rivelarono essere altri funzionari di polizia). Per decenni sono stati l’unico caso di rottura della congiura del silenzio sull’uso della tortura in Italia.
La classe dirigente di questo paese, intendendo con essa la casta politica, i funzionari dello Stato e la casta giornalistica, hanno sistematicamente omesso, coperto, negato quello che oggi viene certificato dalla Corte Europea di Giustizia sull’uso della tortura nel nostro paese. Qui e là si aprono talvolta delle breccie che non hanno però conseguenze coerenti. I vertici della polizia coinvolti nei fatti di Genova fanno carriera e gli agenti coinvolti nei casi finiti nei tribunali spesso restano in servizio, con la prescrizione a fare da colpo di spugna.
In questi anni ci è capitato spesso di incontrare esuli o militanti della sinistra argentina e di avere l’impressione che molti, passati nelle mani dei torturatori della giunta militare, avessero rimosso l’orrore su quanto accaduto. Ma era la rimozione delle vittime, qui assistiamo alla rimozione dei carnefici, il che non è la stessa cosa.
Questo paese non ha mai trovato il coraggio civile e politico di guardare dentro le proprie zone di tenebra, ha tenuto gli armadi della vergogna girati con le ante chiuse verso i muri, ha depotenziato ogni sentenza sulle stragi di stato. C’è un buco nero nel fare i conti con la propria storia recente, che ha minato sia la Prima che la Seconda Repubblica. Anche se stavolta, nel caso della tortura, “ce lo dice l’Europa”, appare difficile intravedere che l’attuale classe dirigente sappia fare di meglio, perché di quel buco nero ne è consapevole e volenterosa continuità.
Questo articolo è stato pubblicato da Contropiano.org l’8 aprile 2015

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