di Bruno Giorgini, Parigi, 20-28 febbraio 2015
Il liceo Averroè
(Prima parte). Già che sono in giro per scuole vado accompagnato da Liberation a leggere cosa succede al liceo musulmano di Lille. L’evento che proietta il liceo Averroè in prima pagina sono le dimissioni di Soufiane Zitouni, professore di filosofia che si definisce “cittadino francese di cultura musulmana” più precisamente di tendenza Soufi, date accusando un’atmosfera antisemita e islamista che crescerebbe nella scuola. Ci sono state tribune e controtribune sui media discutendo la triade razzismo antisemitismo islamofobia, che qui non affrontiamo, avendone a lungo parlato con Michèle Sibony, portavoce dell’Unione ebraica francese per la pace e di cui diremo altrove.
Semplicemente qui vogliamo sottolineare alcune cose. La prima che il liceo ha avuto un aumento consistente degli iscritti, piuttosto delle iscritte, dopo l’approvazione della legge che vieta il velo nelle scuole pubbliche, velo che molte ragazze musulmane considerano ormai in Francia simbolo di libertà: un paradosso che la dice lunga sul cul de sac in cui si è cacciata la Republique con questo divieto. La seconda che il liceo Averroè è una scuola privata che deve però rispettare alcuni criteri dettati dallo Stato, per esempio tra gli insegnanti ci sono persone di varie fedi, tra cui cristiani e cattolici come Eric Dufour, vicedirettore.
Non sono riuscito a sapere se ce ne fosse qualcuno di fede ebraica, ma francamente non credo. La terza è che il liceo è una emanazione, seppure non diretta, dell’Unione delle Organizzazioni Islamiche di Francia (UOIF) egemonizzata dai Fratelli Musulmani. Infine che una delle accuse che rimbalza tra gli uni e gli altri è la “mancanza di senso dell’umorismo”. Insomma pare che la questione del ridere o non ridere, e di chi e di che cosa sia ormai nodale. In questo senso Charlie Hebdo ha veramente travalicato i confini della satira strettamente intesa per diventare argomento di discussione per la società tutta, compresi gli austeri Fratelli Musulmani.
Charlie Hebdo n. 1179
Charlie Hebdò… c’est reparti. Mercoledì 25 febbraio alle sei e mezzo del mattino sono di fronte al giornalaio di Rue Didot a Parigi che sta aprendo. Mi sono svegliato in ora antelucana per comperare il nuovo numero (1179) di Charlie Hebdò, stampato in due milioni e mezzo di copie, ma non si sa mai. Quando uscì il numero speciale, quello del perdono, si esaurì in un batter d’occhio, seppure poi ristampato fino a otto milioni di copie, tutte vendute nel mondo intero. Su una squillante copertina rossa Luz ha disegnato una muta di cani, tra cui Marine Le Pen, il Papa, il jihadista col mitra, Sarkozy, il finanziere con la bocca piena di biglietti di banca, ecc. mentre insegue un piccolo cagnolino che fugge con Charlie in bocca. Ma è difficile, se non impossibile, raccontare una vignetta, tanto più raccontare un giornale di molte vignette. Più facile riportare un passo dell’editoriale di Riss, il nuovo direttore che nella strage scampando per un pelo alla morte, ebbe la spalla fracassata dai colpi di mitra, oggidì ancora inabile.
Scrive Riss: (..) L’oltranza e gli eccessi spesso rimproverati ai disegnatori di “Charlie Hebdo”, non sono in realtà che un metodo per avventurarsi lungo sentieri sconosciuti. (..) Non bisogna dubitare quando si decide di entrare in una redazione per uccidere tutti i suoi membri. I disegnatori e i redattori di Charlie passano il loro tempo a dubitare. Di tutto e soprattutto di se stessi, del loro talento, della loro ispirazione. (..) è disonesto mettere sullo stesso piano le sedicenti provocazioni dei disegnatori con la violenza degli assassini proclamando “se la sono cercata” (..). A proposito del “se la sono cercata” quasi che i redattori di Charlie fossero ossessionati dall’Islam, due ricercatori, Céline Goffette e Jean-Francois Mignot hanno classificato le prime pagine del giornale dal 2005 a oggi.
Ebbene su 523 prime pagine, soltanto 38 prendono di mira la religione, di cui 21 il cristianesimo, 10 religioni varie e 7 (sette) l’Islam, ovvero poco più dell’ 1% – per essere un’ossessione, è ben piccola. Il che non toglie che le fatwa continuino. Una scontata – ahimé, a questo siamo giunti, che una fatwa assurda e assassina possa chiamarsi “scontata” – per Riss il nuovo direttore, un’ altra meno ovvia contro Zineb el Rhazoui, e violentissima con messaggi lugubri via twitter che invitano a ammazzarla nei modi più vari, oltre al solito coltello anche a bastonate o schiacciandole la testa a colpi di pietra. Eppure Zineb, che ha risposto per le rime, non era nota al grande pubblico ma chissà forse perchè donna, forse perchè con un nome e cognome che indicano una possibile origine araba, è diventata un bersaglio. Per capire in che condizioni lavorano e vivono redattori e disegnatori facciamo una simulazione.
Dunque supponete di dare un appuntamento a un amico della redazione in un qualche caffé parigino come si usa spesso in questa città. Prima il luogo verrà sterilizzato da un gruppo di agenti del gruppo antiterrorismo, col risultato di allontanare ogni persona “normale”, quindi l’amico che si presenta verrà identificato con cura e eventualmente invitato con cortese fermezza a vuotarsi le tasche, infine arriva la persona con cui avete appuntamento accompagnata da una possente scorta, che, come si suol dire, mette in sicurezza il perimetro. Infine potete bere un caffè insieme, che per quanto zucchero ci mettiate, sa comunque d’amaro.
Poi voi ve ne andate uscendo dallo scenario di guerra e rientrando a Parigi coi suoi boulevard, i suoi giardini, le sue passeggiate sul bordo Senna, mentre il vostro amico rimane tra le braccia della scorta, per fortuna fin sotto casa, fin dentro casa, fin sotto la redazione, fin dentro la redazione. Una redazione che sta venendo attrezzata come un bunker, una redazione dove l’allegria, l’ironia, la leggerezza saranno virtù molto difficili. In queste condizioni l’uscita del giornale è quasi miracolosa, come se un qualche Dio non totalitario li illumini e dia loro coraggio, che ce ne vuole tanto. Ripasso la sera dal giornalaio, ha venduto tutte le 100 copie del mattino, il giorno dopo ne espone a occhio circa ancora un centinaio; siamo a giovedì e quando venerdì cambio casa e quartiere molte stanno ancora lì sulla rastrelliera. Non c’è stata l’ondata d’acquisti del numero speciale.
Certamente però il Charlie che distribuiva alcune decine di migliaia di copie con 8000 abbonati tirando la cinghia, non esiste più. Intanto ha ormai 200.000 abbonati, incassando, tra donazioni e vendite alcuni milioni di euro, una cifra inimmaginabile e per la cui gestione la struttura amicale fin qui in essere, sembra inadatta. Nel contempo i nostri amici libertari e anticlericali, tali vogliono restare, “l’eccesso di denaro ci può rovinare” ha detto più o meno il medico urgentista e collaboratore di Charlie, Patrick Pelloux. Finora hanno deciso di devolvere una quota consistente alle famiglie dei caduti e dei feriti, quindi di creare una fondazione per disegnatori e da ultimo stanno discutendo di una società ad azionariato popolare, nonchè di una cooperativa dei redattori. Tornando tra le pagine del giornale segnaliamo due articoli.
L’uno “Syriza est l’avenir de l’Europe”, l’altro, una doppia pagina titolata “Djihadiste et musulman sur le divan”, una intervista a due psicanalisti, Malik Chebel anche antropologo e Gerard Bonnet anche specialista delle immagini, che hanno esplorato, per così dire, l’inconscio che si agita sul fondo dei militanti jihadisti. Da ultimo guardando gli splendidi disegni sotto il titolo eros & thanatos possiamo dire: in bocca al lupo Charlie.
Gli amici
E passando da Charlie non possiamo trascurare gli amici di vecchia data. Per semplicità espositiva l’uno lo chiameremo Mohamed, l’altro Moises. In realtà due figure virtuali a rappresentarne grosso modo due gruppi. Sono laici, liberi pensatori e cittadini della Republique alieni da ogni comunitarismo, piuttosto di sinsitra con buoni mestieri e vite ricche di soddisfazioni se non felici (per quanto lo si possa essere).Tutto questo fino a ieri bastava. Fino a ieri. Oggi mi pare ci siano delle faglie. Mi spiego. A casa di Moises in bella mostra è comparso il candelabro sacro, la Menorah, mentre Mohamed insiste un filo troppo invitandomi a accompagnarlo per visitare una moschea. Insomma compaiono piccoli segni di ripiegamento all’interno della comunità d’origine, quasi la dimensione di cittadino non bastasse a sopire l’angoscia provocata dallo scatenamento della violenza. Non sento paura in nessuno dei due, ma una sorta di solitudine e glaciazione cui tentano di ovviare ricongiungendosi ai loro simili, alla ricerca direi di calore e riconoscimento nel quadro di una antropologia comunitaria.
In metrò. Il metrò è sempre un buon termometro per misurare la temperatura sociale di una città. Tanto più che noi non abbiamo alcuna pretesa di scientificità, ma soltanto di percezione, che è chiara. Al di fuori delle ore di punta e specialmente in quelle serali molte persone si raggruppano nei vagoni su base etnica e/o di colore. A spanne direi attorno al 50%. Quando sono entrato in un vagone ampiamente popolato da neri/e, alcuni mi hanno guardato come fossi un poliziotto, altri come un attentatore e infine qualche burbera signora come un vecchio porco in cerca di ragazzine nere. Soltanto quando con un signore che portava sottobraccio un libro su Einstein ho attaccato discorso, spiegando che ero un fisico ecc.., l’atmosfera si è distesa, ciascuno ricominciando a pensare ai fatti suoi.
La semeiotica della guerra e la gag dei droni
Se Parigi non non mi pare blindata, il linguaggio simbolico della guerra invece si dispiega quasi ogni giorno sui media. Le Monde del 21 febbraio pubblica su una intera pagina ampi stralci del discorso di Hollande sulla necessità della force de frappe e della dissuasione nucleare nell’attuale quadro geopolitico. Il Presidente francese parla davanti alle forze aeree strategiche riunite nella base 125 “Charles – Monier”, un pubblico scelto elitè delle forze armate.
Tra le molte cose che dice, egli annuncia che non ci saranno tagli al bilancio militare – letteralmente : nous avons sanctuarisé les credits(..) sia per la forza di dissuasione che per gli armamenti convenzionali. Quindi lunedì 23 con grancassa e fanfare la portaerei a propulsione nucleare “C. De Gaulle” scioglie gli ormeggi partendo verso il golfo arabo nel quadro della guerra contro Daesh, o Califfato che dir si voglia. Nella notte la grandeur francese viene sberleffata da cinque imprendibili droni volanti nel cielo di Parigi sopra la Tour Eiffel, l’Ambasciata USA, la Bastiglia, Place de la Concorde e les Invalides, luoghi simbolici del potere e della Republique. Come se non bastasse la notte dopo si replica, con la miriade di ipotesi che vengono fatte e strafatte dagli esperti più vari su tutti i media del paese, producendo un effetto gag irresistibile. Poi nel pomeriggio di mercoledì vengono fermati tre giornalisti di Al-Jazeera presi al Bois de Boulogne mentre fanno volare un drone, poco più di un giocattolo, mentre quelli notturni erano di ben altra stazza e tecnologica capacità di volo. Però la semeiotica della guerra continua.
Nel corso della settimana le reti della TV pubblica mandano in onda due lunghi servizi in esclusiva. In uno vengono riprese tutte le tappe di una manovra che simula un allarme nucleare con la risposta francese, nell’altro un reporter sale a bordo dei nuovi Rafale simulando azioni di combattimento e tutto il contorno di acrobazie aeree. A proposito dei nuovi caccia è da segnalare un piccolo ma significativo incidente nel percorso della propaganda di stato: alla cerimonia del 16 febbraio al Cairo per la firma del contratto di vendita da parte della Francia di 24 Rafale, una fregata e uno stock di missili all’Egitto, “inspiegabilmente” da parte del Ministero francese della Difesa viene negato l’accredito all’inviato di Le Monde, che si chiede con sarcasmo se la “dimenticanza” non sia dovuta alle critiche del giornale sull’intero affaire di compravendita nonchè verso il sostegno della Republique all’attuale regime egiziano.
La convivenza civile
Venerdì mi sposto a casa d’amici, nel XIX arrondisment, un quartiere assai misto, un ottimo punto d’osservazione per vedere in atto un lembo di società multietnica e multiculturale. Attorno a Rue Petit, nei pressi del Canal de l’Ourcq, in un fazzoletto stanno il complesso scolastico ebraico Loubavitch di tendenza Hassidica (credo, comunque ortodossi se non fondamentalisti) con 2000 (duemila) allievi, una sala di preghiera musulmana di tendenza salafista – anche loro non scherzano in quanto a fondamentalismo – e una chiesa evangelica, con un pastore originario del Togo frequentata da un multipopolo di fedeli africani, antillesi, bianchi, kabyli, altri ancora che cantano splendidi gospel.
Ciascuno può praticare liberamente il suo culto, parlo di ier l’altro cioè dopo l’attentato a Charlie, e inoltre tutti costoro si sfiorano sugli stessi marciapiedi, negli stessi caffè, sugli stessi moli, ebrei e musulmani con i loro abbigliamenti e segni ben riconoscibili, senza insultarsi e neppure picchiarsi e neppure spararsi addosso. Certo gli ebrei ortodossi fanno finta di non vederti, forse sul serio non ti vedono, tu goy sei per loro trasparente. Per un attimo ti viene il dubbio di non esistere e che comunque ci sia tra te e loro un muro insormontabile. Anche qui con due possibilità, la prima che non ti guardino perchè ti disprezzano, essi appartenenti al popolo eletto tu fuori peccatore destinale, la seconda che tu gli faccia paura, una paura atavica dovuta a secoli di segregazioni, ghetti, pogrom.
Anche il predicatore salafista, abbigliato con lo zucchetto (ahimè non so come si chiama in arabo) e la kamiss (almeno così la chimano i francesi) bianca fino ai polpacci a imitazione del profeta, con barba d’ordinanza, non è proprio che abbia uno sguardo amichevole, però neppure satanico o apertamente ostile, mi segue con lo sguardo finchè non m’allontano, e questo è tutto. Unica presenza dello Stato, tre giovani soldati di ronda, armati e attenti ma anche molto sorridenti e gentili se chiedi loro informazioni. È mai possibile che ci sia qualcuno che non capisce come questa libertà di culto e convivenza civile, forse non calorosa ma almeno non ostile, dipenda in modo rigoroso dalla libertà d’espressione difesa a prezzo della vita dai redattori e disegnatori di Charlie Hebdò? Eppure pare proprio che qualcuno ci sia, a disdegno di ogni ragione.
Ultima notazione
Martedì mattina 24 febbraio viene sequestrata in Yemen Isabelle Prime, 30 anni, originaria del dipartimento di Maine et Loire. Nell’ultima foto visibile in rete sorride serena. Era lì per seguire un programma di aiuti della Banca Mondiale. Una giovane donna ancora una volta in una condizione di costrizione sans toit ni lois, senza tetto nè legge, in totale balia dei suoi rapitori. Per fortuna in Francia nessuno si sogna di insinuare che se l’è cercata. Almeno questo.