di Bruno Giorgini, Parigi, 20-28 febbraio 2015
La frontiera
Parto alle sei del mattino dalla stazione di Porta Garibaldi salendo sul TGV per Paris Gare de Lyon. La prima cosa che mi aspetto dopo il continuo martellare dei media sull’emergenza terrorismo ecc… è un controllo di frontiera più accurato e antipatico del solito – vado da anni a Parigi con questo treno. Invece niente. Salgono due poliziotti francesi giovanissimi, evidentemente delle reclute, che nel mio vagone chiedono a un paio di persone – saremo una ventina – i documenti guardandoli a malapena. Al ritorno non sale nessun agente, nè francese nè italiano. È una cosa di cui essere lieti, nessuna interruzione di Schengen il trattato per la libera circolazione dei cittadini europei almeno su questa linea, e neppure controlli d’identità a tappeto.
L’arrivo
Quando sbarco alla Gare de Lyon, sapendo che è in vigore il piano antiterrorismo Vigipirate in allerta massima, come d’altra parte mi ricorda lo speaker dall’altoparlante, piano cui concorrono anche reparti dell’esercito, e essendo una grande stazione internazionale come questa un obiettivo quasi naturale di possibili azioni terroristiche, ancora una volta mi aspetto di incontrare almeno una pattuglia, e invece niente: per quanto mi guardi intorno e mi aggiri, non ne vedo. Compero subito Le Monde, su cui campeggia un appello di Reporters sans Frontières, rivolto particolarmente ai “responsabili dei luoghi di culto di tutte le religioni in Francia”, per firmare a favore della libertà d’espressione, diremmo in Italia senza se e senza ma.
La città non è blindata
Per non farla troppo lunga in una settimana, e muovendomi da nord a sud e da est a ovest tra un capo e l’altro della città, a piedi, in metrò, bus, taxì, incontro tre guardie private della RATP, l’azienda dei trasporti parigina, un soldato in armi che sta facendo la corte a una ragazza palesemente interessata davanti al Monoprix di Avenue Jean Jaures, e venerdì 27 tre militari di pattuglia vicino a Rue Petit, un posto dove torneremo, sui bordi del Canal de l’Ourcq, che poi diventa il canal Saint-Martin, là dove fu girato nel 1938 un famosissimo film, l’Hotel du Nord.
Vero è che non ho frequentato posti a alta densità turistica, che ne so, la Tour Eiffel, la Piramide del Louvre, gli Champs Elysées dove forse le forze di polizia sono più visibili. A proposito dei militari in servizio di sicurezza diciamo civile, la gente, racconta un sondaggio, li vede assai di buon occhio. Mi dice qualcuno che comunque qualcosa è cambiato. Se prima del 7 gennaio, data della strage a Charlie Hebdo, andavano di pattuglia in tre, di cui uno solo con l’arma carica, adesso tutti e tre sono pronti a sparare.
La città dei bambini
Se a colpo d’occhio la città non pullula di poliziotti, pullula invece di bambini, da quelli piccoli piccoli in passeggino, una sciagura quando entrano in metrò spinti da giovani madri che si aprono la strada falciando caviglie e stinchi, a quelli più grandicelli. Li incontri dappertutto, sui marciapiedi, nei giardinetti, in coda al cinema, sul bus, allegri rumorosi di tutti i colori, ognuno diverso e tutti eguali. Poi ti imbatti nelle sorelle e fratelli maggiori, adolescenti e già alcune distinzioni le vedi, nel modo di vestire, nei simboli che si portano addosso, nello sguardo e nell’attenzione che hanno a certe cose. Dice un ragazzo alla professoressa che li sta invitando a non scordare i documenti d’identità, non si preoccupi madame, è la prima cosa che faccio mettermi in tasca la carta d’identità, da quando ho dodici anni. Un ragazzo francese di pelle bruna che chiameremo Alì.
Aicha
Nel mio girovagare incontro Aicha, la figlia sedicenne di due amici, la madre di origine africana molto impegnata nel sociale, il padre maghrebino che lavora nel campo culturale, tutti di nazionalità francese. Aicha porta “estate e inverno” precisa la madre, impertinenti calzoncini corti, è una bella ragazza dagli occhi neri e profondi con lunghi capelli corvini, molto brillante a scuola, parla francese, inglese, spagnolo e sta imparando l’arabo, “per bene”, mi dice fiera, “perchè l’arabo non sono i dialetti nazionali, quello algerino o marocchino, ma una lingua nobile, scientifica e letteraria”.
Inoltre pratica il taekwondo, un’arte a marziale coreana che, per qualche ragione che capisco poco, sarebbe particolarmente adatta alle ragazze. La famiglia è laica, ovvero non pratica per esempio il digiuno del Ramadan. Quindi Aicha quando è a scuola va normalmente in mensa anche nel mese del Ramadan. Fino all’anno scorso perchè quest’anno alcuni giovanotti della scuola – un buon liceo, niente a che vedere con quelle degradate – hanno cominciato a infastidirla, trattandola da apostata traditrice e qualcosa di peggio, sia per i calzoncini sia perchè non digiuna. In famiglia c’è stata una discussione, in particolare sul modo di vestire ma Aicha non ne ha voluto sapere di abbandonare i suoi amati calzoncini per un paio di più castigati jeans, né tantomeno di non andare in mensa, ramadan o meno. I genitori sono intervenuti col Preside, il cui potere si esaurisce alle porte della scuola, fuori non può assumersi alcuna responsabilità.
Il giudizio di Aicha è tranchant, “vogliono soltanto toucher mon cul, toccarmi il culo, sono dei coglioni, des cons”. La madre è più preoccupata il padre parecchio furioso, comunque Aicha si è organizzata con un gruppo di compagne che si spalleggiano a vicenda, alcune andando in palestra con lei. Per il resto quando il discorso scivola sui neri combattenti di Daesh dice calma calma: io li ammazzerei tutti.