di Domenico (Mimmo) Perrotta
La questione dello sfruttamento del lavoro migrante nelle filiere agricole è ormai nota all’opinione pubblica: dai braccianti africani ed est-europei impiegati nella raccolta del pomodoro nel foggiano e degli agrumi in Calabria, ai “ghetti” e alle baraccopoli che si ingrossano stagionalmente nelle campagne da Campobello di Mazara, a Saluzzo, ma anche i maghrebini, occupati nelle serre ragusane e salernitane, e gli indiani nell’allevamento e nell’orticoltura laziale. Si tratta di situazioni conosciute e spesso denunciate dai media di tutta Europa.
I braccianti stranieri sono resi vulnerabili da una serie di fattori concorrenti: dalla legge sull’immigrazione alla segregazione abitativa, dalla mancanza di alternative al caporalato per trovare un impiego a filiere agricole che impongono agli imprenditori di abbassare il costo del lavoro, fino a una crisi economica che li ha estromessi dagli altri settori produttivi. Raramente gli enti locali si impegnano per una soluzione strutturale e non meramente emergenziale del problema e, sempre più spesso, sono le piccole associazioni che provano a sostenere i lavoratori.
In questo quadro, stanno emergendo alcune pratiche di tipo cooperativo e mutualistico: progetti di agricoltura “etica” o “solidale” che vedono direttamente protagonisti – o almeno coinvolti – i braccianti. Esperimenti che partono dalla consapevolezza che, per eliminare lo sfruttamento del lavoro migrante, è necessario ripensare completamente le filiere agro-alimentari, cambiare le relazioni non solo tra datore di lavoro e dipendente ma anche tra produttori e consumatori, campagne e città. Sono progetti che si rifanno all’esperienza accumulata negli anni dai movimenti dell’agricoltura contadina, dai gruppi di acquisto e dal commercio equo-solidale, che talvolta nascono all’interno di centri sociali e che riprendono le pratiche cooperative che furono patrimonio dei grandi movimenti bracciantili italiani.
L’esperienza più nota è quella di SOS Rosarno, un’associazione che unisce piccoli contadini calabresi e braccianti africani nata dopo gli scontri avvenuti nel gennaio 2010. Attraverso la vendita diretta di agrumi, olio e marmellate ai Gas (Gruppi di acquisto solidale) di tutta Italia, SOS Rosarno non solo garantisce un reddito equo ai contadini e un salario regolare ai braccianti ma, soprattutto, sviluppa progetti politici ed economici e sostiene realtà militanti vicine e lontane.
La consapevolezza delle storture provocate dalla monocultura agrumicola nella Piana di Gioia Tauro ha portato l’associazione a dare vita a degli orti per una produzione rivolta soprattutto al mercato locale; inoltre, nel gennaio 2014 l’associazione ha promosso una campagna nei confronti di Coop Italia e di altri marchi della GDO per chiedere trasparenza sui prezzi corrisposti alle aziende agricole. Ad oggi si sta ragionando – assieme ad altre realtà – su come costruire piattaforme logistiche per la distribuzione dei prodotti dell’economia solidale.
Costituitasi sull’esempio di altre realtà agrumicole e contadine, soprattutto siciliane, SOS Rosarno ha mostrato con forza come il mondo dell’economia solidale debba mettere al centro della propria attenzione temi come lo sfruttamento del lavoro bracciantile e la devastazione ambientale di molti territori.
Accanto e assieme a SOS Rosarno altre realtà stanno provando a praticare progetti simili. Un esempio sono i “pomodori solidali”, promossi dalle associazioni Fuori dal ghetto e Osservatorio Migranti Basilicata e prodotti nel 2013 e nel 2014 da un bracciante burkinabé nelle campagne di Boreano, nel Nord della Basilicata. Nel trapanese, invece,alcune associazioni attive a sostegno dei braccianti stanno progettando la produzione di olive da tavola e olio.
Non si tratta solo di campagna: anche nelle città vi sono esperienze interessanti. A Roma, ad esempio, alcuni lavoratori africani fuggiti da Rosarno dopo gli scontri del 2010 hanno dato vita alla Cooperativa Barikamà: ora producono yogurt biologici e li consegnano in bicicletta in tutta la città. Oppure a Bari, dove l’associazione Solidaria, che supporta le rivendicazioni dei richiedenti asilo e dei rifugiati politici – ad esempio attraverso l’occupazione dell’ex-liceo Socrate a scopo abitativo, ora riconosciuta dal Comune di Bari – ha prodotto nel 2014 la salsa di pomodoro Netzanet assieme ai migranti della struttura occupata.
Queste sperimentazioni, pur consapevoli dei limiti e delle contraddizioni in cui operano, si pongono l’obiettivo di dare un reddito dignitoso ai lavoratori migranti e italiani cercando l’alleanza di gruppi di consumatori consapevoli e politicizzati.
SOS Rosarno coinvolge una decina di contadini e una quindicina di braccianti: pochissimi, se pensiamo che in tutta la Piana di Gioia Tauro vi sono circa 1500 aziende agrumicole dove, ogni anno, si riversano migliaia di lavoratori stagionali. Inoltre, la sostenibilità economica di questi progetti è sempre in bilico e le associazioni, spesso piccole e con pochi mezzi, fanno molta fatica a combinare questi esperimenti con le necessarie pratiche di solidarietà e supporto ai moltissimi braccianti sfruttati che si spostano stagionalmente in questi territori.
Per i migranti partecipare a queste esperienze è spesso difficile, perché non garantiscono immediatamente un reddito sicuro e perché è necessario stabilirsi su un territorio anche nei mesi in cui non vi sono sufficienti occasioni di lavoro, tuttavia le pratiche di mutualismo potrebbero essere un supporto importante per percorsi di rivendicazione, soprattutto se unite anche a serie inchieste sulle filiere e, eventualmente, a campagne di boicottaggio dei prodotti delle imprese che sfruttano il lavoro.
Una strada tutta da percorrere. Nonostante le criticità attuali, queste pratiche contribuiscono a mostrare le ben più acute contraddizioni delle filiere agro-industriali legate alla grande distribuzione e a ragionare sul fatto che, se si intende operare per un miglioramento delle condizioni dei lavoratori agricoli, non si può non lavorare su un’organizzazione della produzione, della distribuzione e del consumo del cibo che siano profondamente differenti da quelle attuali.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito Il corriere delle migrazioni il 9 febbraio 2015