di Benedetta Pintus per Pasionaria
La notizia della liberazione di Kobane, città siriana difesa dai curdi che ha resistito all’occupazione dell’Isis, è stata un raggio di sole nell’abisso di terrore del fondamentalismo islamico in cui tutti eravamo ripiombati dopo i folli attentati di Parigi. Ma della vicenda si è parlato tanto anche per un altro aspetto, molto appetibile per i media occidentali: a combattere contro il califfato nelle file dell’YPG, l’esercito curdo siriano, c’erano anche tantissime donne, riunite nella brigata YPJ, determinante per la vittoria di Kobane.
Nonostante le donne combattano ormai praticamente in qualsiasi milizia del mondo, la “parentesi rosa” della battaglia contro l’Isis era troppo ghiotta per essere ignorata. E in pochi l’hanno contestualizzata a dovere. Tanti commentatori si sono lanciati in lodi sperticate nei confronti delle guerrigliere, scadendo in prevedibili commenti retorici, in cui – nonostante si parli di combattenti – le parole “coraggio” o “forza” rimangono non pervenute. Mentre abbondano “i sorrisi” e l’immancabile “bellezza”. Non ci credete? Ho le prove.
Questo è un articolo di Wired (molto condiviso in questi ultimi giorni sui social), scritto con toni dall’ambizione poetica, in cui per descrivere persone che hanno rischiato la vita per difendere il proprio popolo ci si focalizza esclusivamente sul loro aspetto esteriore: “volti puliti” (si pensava forse che le guerrigliere combattessero con eye liner e rossetto?) e “cappelli sciolti” (in realtà in quasi tutte le immagini hanno code di cavallo, trecce o fasce e foulard sulla testa, ma non saremo certo noi a mettere limiti alla fantasia).
E non è tutto. Le soldatesse oltre alla bellezza acqua e sapone, hanno anche un’altra dote necessaria a qualsiasi donna di fascino: la “giovinezza”. Da che mondo è mondo in prima linea non hanno mai combattuto degli anziani, ma che importa? Dire che la guerra ha “ringiovanito” le donne fa molto più effetto.
Vi risparmiamo il punto in cui l’autore di questa elegia, vinto dalla passione, sostiene di essersi innamorato delle donne di Kobane, e vi mostriamo quest’altro articolo, in cui l’agenzia Aska News, scopiazzando malamente quello di Wired, riesce persino a fare di peggio:
Ora qualcuno obietterà: quando si parla di “bellezza” non ci si riferisce necessariamente a quella fisica. In questo caso si potrebbe parlare della bellezza legata al significato di libertà o di vittoria, ad esempio. Giusto. Ma allora cosa c’entrano i capelli sciolti? E i volti puliti?
Non solo. Vi invito a provare un facile esperimento: cambiate il genere di queste affermazioni, dal femminile al maschile. Pensate ai ragazzi di Kobane: cosa pensereste incappando in un titolo che li definisce “gli uomini più belli del mondo”? O se trovaste scritto che la “la loro bellezza e i loro sorrisi” hanno trionfato sui fondamentalisti? E se una giornalista dicesse di essersi “innamorata” di loro? Suonerebbe non solo strano, ma anche ridicolo.
Descrivere queste combattenti focalizzandosi solo sulla loro (idealizzata) esteriorità non fa altro che sminuirne il valore, non rende loro giustizia. Perché qua non si parla di uomini o donne, ma di morte, sangue e fango, di resistenza al nemico. E se proprio si vuole accendere un faro sulle combattenti di sesso femminile perché parlare solo di come appaiono e non delle doti che le hanno fatte uscire vittoriose da questa guerra disperata (che francamente dubito siano i sorrisi)?
Sembra che nel linguaggio dei mass media manchino le parole per descrivere le donne. Anche gli opinionisti (e le opinioniste) di buona volontà finiscono spesso per ricadere nell’intramontabile “bella e brava”, quasi si facesse fatica a parlare di una politica o di un’imprenditrice senza fare neanche un minimo accenno al suo aspetto fisico. Quasi come se alle femmine fosse preclusa una gran parte degli aggettivi del nostro sterminato vocabolario.
Dovremmo essere noi donne, per prime, a riappropriarcene.
Questo post è stato pubblicato sul blog Pasionaria il 1 febbraio 2015