di Pancho Pardi
Il parlamento eletto con una legge che la Corte Costituzionale ha giudicato gravata da profili di incostituzionalità ha scelto come nuovo residente della Repubblica proprio un giudice di quella stessa Corte. C’è un sapore di ironia. Niente di irregolare: la stessa sentenza della Corte stabiliva che nello Stato non può esservi vacanza dei poteri, per cui anche un Parlamento eletto in quel modo deve comunque sussistere e operare. Dunque è necessario che elegga il Capo dello Stato. Ma restano i profili di incostituzionalità sulla sua formazione.
Non pochi costituzionalisti hanno sostenuto che perciò il Parlamento, libero di legiferare su tutto, dovrebbe astenersi dal toccare la Costituzione. E invece è proprio quello che vuole fare. Non solo: lo fa con la ferma intenzione di stravolgerla su una questione fondamentale: la sottomissione definitiva della rappresentanza politica al primato intoccabile della governabilità. Questo è il significato effettivo del declassamento del Senato accoppiato alla riforma elettorale.
Fino a ieri solo i critici del riformismo governativo sostenevano con ricchezza di argomentazioni che le due riforme in corso avrebbero determinato la trasformazione di una minoranza parlamentare in una maggioranza abnorme, plasmato questa falsa maggioranza come strumento docile nelle mani di chi ha avuto il potere di farla eleggere, consegnato alla fine al leader di turno un potere senza limiti e senza controllo. Critiche respinte seccamente da tutti i responsabili delle modifiche in corso.
Ma nell’affollarsi dei commenti politici e giornalistici di oggi ormai non c’è più nessuno che neghi la realtà non smentibile. È ormai un coro unanime: con la riduzione a una sola Camera titolare del rapporto fiduciario col Governo, con la formazione di quella sola Camera sulla base di una legge elettorale che rende nominati in anticipo i futuri parlamentari nella proporzione di circa due terzi, con il dominio sulla candidabilità dei futuri eletti in mano a pochi capi di partito, tutti ormai scoprono, con una certa soddisfazione, che il prossimo presidente del consiglio sarà di fatto eletto direttamente. Nel senso che chi andrà al seggio elettorale di fatto voterà per un capo. Sotto il profilo istituzionale l’asserzione è inesatta, ma è profetica sotto il profilo politico. Di fatto la supremazia del premier riduce la forma parlamentare della Repubblica a una parvenza.
È indubbio che negli ultimi decenni il Parlamento non ha dato buona prova di sé. Basta pensare che non è riuscito a impedire a un monopolista privato di impadronirsi del potere per un ventennio e ha di conseguenza sprecato venti anni di politica ed economia. Ma è una buona ragione per mettere l’unica assemblea elettiva nella mani di una persona sola? Da parte loro i parlamentari di centrosinistra sostenitori della nuova legge elettorale si renderanno conto di cosa hanno fatto se e quando perderanno le elezioni.
Ora si prospetta una situazione originale. Un cultore raffinato della scienza giuridica, un esperto di sistemi elettorali, un giudice costituzionale si trova ad essere il più alto custode della Costituzione nel preciso momento in cui la maggioranza delle forze politiche vuole assestare alla Carta un colpo decisivo. Che cosa farà il nuovo Presidente?
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 31 gennaio 2015