di Amina Crisma
Che cosa significa oggi per noi “libertà di religione”? Dopo la strage perpetrata a Parigi dal fascismo jihadista, e dopo la manifestazione che ne è stata la grande, bella, plurale e pacifica risposta, dovremmo essere tutti consapevoli della sua cruciale importanza: è una questione vitale che ci riguarda tutti da vicino, che riguarda le forme concrete che vogliamo dare alla nostra civile convivenza di oggi e di domani.
La libertà di religione non è un lusso: è parte costitutiva e ineludibile di un autentico vivere da cittadini in una libera polis, e chiunque a qualsiasi titolo ha responsabilità politiche dovrebbe prendersene debita cura. In questo mio intervento, propongo una riflessione su due aspetti: il nesso fra libertà di religione e laicità, e la problematica situazione della libertà religiosa nel nostro Paese, in questi giorni additata all’attenzione da un dibattito significativo.
1. Libertà di religione è che ognuno possa praticare liberamente la propria, ed è anche libertà di non averne nessuna
Il tema della libertà religiosa è tornato a imporsi con una pregnanza particolare al centro dell’attenzione in questi giorni, in tutta la densità delle sue implicazioni, teoriche e pratiche, politiche e giuridiche e culturali, individuali e collettive, esistenziali e sociali…Dopo la strage perpetrata a Parigi dal fascismo jihadista, torniamo a pensarla non come un’entità scontata, astratta e remota, ma come qualcosa che ci riguarda da vicino, tutti e ciascuno, nel rapporto con l’intimità della nostra coscienza e del nostro destino creaturale come nel legame solidale che ci unisce ai nostri simili, nel nostro rapporto con la polis, con lo spazio pubblico del nostro essere cittadini, come nel vissuto della nostra esperienza individuale.
Questa istanza di libertà rinvia, immediatamente e necessariamente, alla pluralità: una pluralità che per me, laica e credente, non ha il volto astratto di Entità Metafisiche (le Religioni), ma innumerevoli volti concreti, dalle anziane pellegrine tibetane incrociate camminando sulle piste del Qinghai ai giovani seminaristi cinesi che mi raccontano storie delle loro famiglie, cattoliche da cinque generazioni. Sono persone incontrate in molteplici luoghi: dalla chiesa della mia infanzia alla sinagoga di Verona dove per la prima volta ho scoperto, da ragazzina, che non c’è un solo modo di pregare un unico Dio, dalla moschea di Xi’an all’ombra delle pagode alla Nantang di Pechino fondata da Matteo Ricci, dal ristorante cinese nel Veneto che una volta alla settimana diventa estemporanea sede di culto evangelico, alla veneziana chiesa dei Greci con le sue fulgide icone e la sua splendida liturgia, alla sala valdese di Padova nella sua spoglia nudità.
Il luogo che più di ogni altro mi ha dato l’idea della universalità della Umma è stata forse la moschea della Niujie di Pechino (nella foto sopra); e quello che più di ogni altro mi ha dato l’idea della cattolicità è stato forse un minuscolo campanile diroccato, scoperto in un angolo remoto del Sichuan (e non casualmente mi vengono in mente esempi riferiti alla Repubblica Popolare Cinese, la cui situazione, benché nell’insieme decisamente migliorata rispetto all’epoca maoista, presenta tuttora aspetti ambivalenti e paradossali, e se da un lato la Costituzione vigente solennemente enuncia il diritto alla libertà religiosa, dall’altro rispetto al suo esercizio, tuttora soggetto a forme stringenti di controllo governativo, permane una diffidenza delle autorità che nella dura repressione del movimento Falungong all’inizio degli anni Duemila ha conosciuto una delle sue più palesi manifestazioni).
Ognuno di quei luoghi rinvia a tanti altri, diversi e fraterni, ai quali è legato. Uno dei posti dove questo legame risulta più intensamente percepibile è il monte Nebo (nella foto sopra), dove può accadere di far memoria di Mosé in un’eterogenea compagnia di frati francescani, preti ortodossi, rabbini, pastore, teologhe femministe e musulmani; e altrettanto intensamente lo si può avvertire davanti ai piccoli mucchi di sassolini bianchi che in Tibet usano mettere ai passi, in omaggio alle potenze dell’invisibile.
L’esigenza insopprimibile della libertà di religione si lega indissolubilmente alla fraternità umana che tutti ci accomuna, e insieme alla nostra irriducibile pluralità, come ben ci rammenta il manifesto della municipalità di Parigi che si vede qui sotto, con tutta l’icastica forza testimoniale che i drammatici fatti di questi giorni vi hanno conferito.
La libertà di religione è fondativa dei diritti universali, come ci ha fra l’altro ricordato in questi giorni Stefano Allievi, direttore del Master in Studi sull’Islam in Europa, in un incontro su questo tema svoltosi al Dipartimento di Storia dell’Università di Padova a cui ho partecipato, che in tempi normali avrebbe interessato solo un’esigua pattuglia di addetti ai lavori e che in questo frangente si è trasformato in un’affollata assemblea. E don Albino Bizzotto, fondatore di Beati i costruttori di pace, sottolineava a sua volta: “la libertà religiosa è la libertà,” un processo dinamico e aperto, che infinitamente si compie.
E’ dall’istanza della libertà religiosa che si è originata, storicamente, l’epopea dei diritti. Dovremmo rileggerla insieme, quella storia così istruttiva, e ripercorrerne le concrete vicende: questo ci aiuterebbe a liberare il campo dalle rappresentazioni apologetiche di un mitizzato Occidente, immaginato come da sempre e per sempre consacrato, dalla Grecia in poi, a una perpetua religione della libertà che farebbe parte del suo Fato originario e immutabile. Dovremmo ricordarci piuttosto quanto l’esigenza della libertà religiosa sia nata e cresciuta attraverso vicende cruente e prolungate di sopraffazione e di persecuzione (valga per tutti l’esempio dell’antisemitismo sistematicamente praticato per secoli dall’Europa cristiana, prima di diventare l’efferato programma di “soluzione finale” inventato e attuato dal totalitarismo nazista), e quanto concretamente dobbiamo, di questa conquista, prima ancora che all’Illuminismo, agli eretici, al Rinascimento e alla Riforma, alle tenaci e coraggiose battaglie di minoranze perseguitate.
E ancora, libertà di religione si lega necessariamente e indissolubilmente a laicità: “è in quanto credente che rivendico la laicità dello Stato”, ha detto nell’incontro padovano Caterina Griffante, pastora valdese.
Una riflessione che credo sia ben più ampiamente condivisa di quanto generalmente non si pensi. Credo davvero che siano in tanti, non solo in quanto laici, ma anche e precisamente in quanto credenti a rivendicare ovunque la libertà religiosa, nella profonda convinzione che la coatta adesione a una fede, indotta con la costrizione e con la sopraffazione, non merita il nome di “religione”, ma anzi della religione rappresenta una grottesca caricatura e un’indegna profanazione, che la strumentalizza e la perverte a biechi scopi di dominio. n questo senso, “laicità” non si oppone a “religione”, ma ne costituisce il necessario correlativo dialettico: è precisamente quanto le permette di serbare la propria più autentica natura e vocazione.
Ma non è solo come sfondo ineludibile della libertà religiosa e come garanzia di pluralismo che conviene evocare la laicità. La laicità è anch’essa, a sua volta, una peculiare forma di religio, capace di costituire la “solidale catena” della fraternità umana, come sosteneva, ad esempio, quel grande pensatore materialista che risponde al nome di Giacomo Leopardi. E dunque non si può dare effettiva libertà di religione senza il contestuale riconoscimento anche della libertà di non avere religione alcuna.
La difesa della libertà di religione non può che essere, al contempo e indissolubilmente, difesa della laicità. Una difesa che abbisogna di buone pratiche, e di impegno concreto, oltre che di riflessioni non affrettate. E in questo senso voglio ricordare il “Manifesto in difesa della laicità” che undici anni fa, il 16 febbraio 2004, apparve su Libération, e che qui da noi è stato praticamente ignorato (se non ricordo male, solamente il quotidiano Il Manifesto ne parlò). Era firmato da “donne e uomini di cultura musulmana” di ogni orientamento, “credenti, agnostici, atei”; si intitolava “Retrouver la force d’une laïcité vivante”, e si pronunciava senza mezzi termini contro l’antisemitismo, l’omofobia, la misoginia, denunciando fermamente l’Islam politique, ossia la strumentalizzazione della religione islamica in chiave integralista, violenta e intollerante.
Lo firmarono 1932 persone: insegnanti, medici, avvocati, studenti, impiegati, funzionari, prevalentemente residenti in Francia, ma anche in altri Paesi europei, negli USA, in Turchia, Algeria, Marocco, Pakistan… E non si limitavano alle enunciazioni di principio; esprimevano anche la preoccupazione che le parole d’ordine violente e intolleranti trovassero udienza nel disagio, nella povertà, nella frustrazione dei giovani, in Europa e altrove: disagio, povertà, frustrazione a cui oggi più che mai occorre prestare attenzione e dare ascolto, cercando e trovando risposte diverse da quelle che offre lo spaccio a buon mercato della propaganda del fanatismo.
Retrouver la force d’une laïcité vivante: mi sembra si possa ben riassumere così oggi il programma condiviso di coloro, di ogni fede e orientamento, età e condizione, che hanno partecipato domenica scorsa alla grande manifestazione di Parigi. Auspico che possa essere il programma condiviso da chiunque percepisca la minaccia per tutti costituita dal terrore jihadista. Ma se penso sia giusto individuare oggi in questa speciale forma di fascismo il pericolo principale per la libertà religiosa di tutti, non per questo dovremmo trascurare, o considerare con distratta indifferenza, le tante, troppe situazioni in cui essa è violata: dal pericolo a cui sono esposti in tutto il Vicino Oriente i cristiani, la cui presenza rischia di essere cancellata, che è cosa nota benché, a quanto pare, ampiamente sottovalutata, alle – forse meno note – persecuzioni e intimidazioni che in svariati luoghi del mondo, dall’India alla Birmania, solo per citarne qualcuno, subiscono i musulmani dove sono minoranze.
Un piccolo atto concreto in difesa della libertà di religione si può, ad esempio, compiere firmando due appelli che si trovano sul sito di Amnesty International, entrambi riferiti all’Arabia Saudita: riguardano il blogger Raif Badawi (nella foto sopra), condannato nel settembre scorso a dieci anni di carcere e a mille frustate per aver “offeso l’Islam” attraverso i contenuti liberali e le istanze di laicità del suo forum online, e il religioso sciita Sheikh Nimr al-Nimr, condannato a morte nell’ottobre scorso con accuse generiche di “slealtà e sedizione” in seguito a un processo iniquo.
Le forme efferate di persecuzione violenta non sono d’altronde le sole modalità di negare la libertà religiosa. Ve ne sono anche altre, incruente, che la limitano e la circoscrivono, ma non per questo sono minimizzabili e sottovalutabili. È opportuno chiedersi, ad esempio: che ne è della libertà religiosa da noi.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 27 gennaio 2015