Se il comunismo fosse un blog

7 Gennaio 2015 /

Condividi su

Il Manifesto in Rete
Il Manifesto in Rete
di Guido Ambrosino
Con questo messaggio, cerca di riprendere il filo di quel che ci dicevamo a voce il luglio scorso a Bologna. Vorrei anche rispondere alle giuste domande di Michele Fumagallo sul perché le nostre proposte di giornale comunardo sono state respinte. Quando a Berlino mi chiedono che ne è del manifesto, la racconto così: “Il vecchio vascello è affondato nel 2011, in liquidazione per debiti. La scialuppa di salvataggio aveva posto per una ventina di persone. La capitana, con la sua squadra di redattori di macchina, se ne è impadronita, anche se la scialuppa sarà prima o poi messa in vendita, e non è detto che la cooperativa “il nuovo manifesto” riesca a comprarla. Giornalisti e impiegati in sovrannumero si sono dispersi tra i flutti, cercando scampo in direzioni, purtroppo, diverse”.
Insomma una vicenda di feroce ristrutturazione e riduzione del personale, in seguito a un “banale” fallimento, senza bisogno di scomodare dissensi politici. La vulgata “renziana” su una presunta spaccatura tra giovani innovatori e vecchi tradizionalisti è stata escogitata solo a posteriori per giustificare in qualche modo all’esterno il colpo di mano. La divisione semmai era tra chi, con Rossanda, chiedeva di interrogarsi sull’orientamento politico del giornale, e chi pensava a prendersi quel che ne restava, senza tante chiacchere, perché tanto “un giornale è un giornale è un giornale”.
Come mai un giornale ultrapolitico si è sfarinato, più che per netti contrasti, per mancanza di un senso politico comune? La risposta va cercata nella crisi strisciante del decennio precedente, la cui esplosione fu solo rinviata dalla stampella dei finanziamenti pubblici (in realtà fatali per il giornale, perché allentarono il suo iniziale forte rapporto con i lettori). La nostra crisi corse in parallelo con il fallimento dei tentativi di “rifondazione” comunista.

Mentre i partiti – poi partitini – si logoravano nell’aporia se rifare il Pci o qualcosa di vagamente innovativo, ma senza prendere di petto le ragioni della sconfitta del comunismo ufficiale novecentesco, di matrice leninista, nemmeno il manifesto sapeva più spiegare cosa significasse “quotidiano comunista”. “Sembra scomparsa la nostra ricerca di un marxismo critico”, constatava Rossanda nel settembre 2012, riferendosi a questo lungo intorpidimento.
La nostra proposta di una nuova forma di giornale “comunardo”, non più proprietà di una ristretta cooperativa di giornalisti ma di una larga cooperativa di lettori/collaboratori-editori, non voleva essere solo un accorgimento organizzativo per raccogliere soldi (come fu la defunta Spa), ma anche una prima risposta politica a quelle domande inevase sul senso e la natura di un “quotidiano comunista”. Comunista non perché sa “dare la linea” – la redazione aveva cessato da un pezzo di saperla dare – ma perché chiede al suo pubblico di organizzarsi per cercarla insieme.
Questa proposta, che fu subito condivisa dai circoli (tranne quello di Roma, che preferì andare avanti per proprio conto con la fondazione Pintor, che consentisse di inglobare fantomatici finanziatori!), si basava però su una premessa: che ci fosse ancora un consenso sull’ “intenzione fondativa” – cito ancora Rossanda – di fare insieme “un giornale comunista libertario”. Quel consenso tra i giornalisti non ci fu, nemmeno tra i giornalisti dissidenti. Nemmeno riuscivamo a intenderci tra noi su cosa potesse essere quel comunismo libertario, disabituati come eravamo da anni a ragionare sui comunismi, quelli desiderabili e quelli deprecabili (sui comunismi al plurale rimando a quanto scrivevo sul sito di Bologna in un articolo del marzo 2013: “Vi ricordate quel 28 aprile? Il manifesto e la ‘sinistra di classe”).
Per rilanciare un manifesto già atrofizzato nei suoi nervi politici e culturali, la nostra proposta arrivava troppo tardi. È arrivata troppo presto per fare non dico un nuovo giornale, ma almeno un nuovo “blog”? Credo che si chiami così un luogo su internet dove scrivere e leggersi.
La premessa resta la stessa: ci sono, tra quanti nella diaspora manifestina sono rimasti in rete, il bisogno e la voglia di mettersi assieme alla ricerca di un comunismo libertario? Riusciamo a definire questa prospettiva? Crediamo che la politica sia innanzitutto comunicazione, e che quindi ci serva un luogo per praticarla? L’unico modo per saperlo è provarci:

  • Dobbiamo però cambiare la testata “il manifesto di Bologna”. Non ha senso porsi in concorrenza col manifesto realmente sussistente, che non è poi molto peggio del manifesto degli ultimi anni e che, per quel che passa il convento dei media, continua perfino a avere una sua utilità. Dunque togliamo il riferimento al manifesto (il nostro rapporto con quella storia lo spiegheremo nel “chi siamo”). Condivido la scelta padovana di sciogliersi come “circolo del manifesto”. Cambierei anche il nome dell’associazione “il manifesto in rete”, ma so quanto è complicato metter mano allo statuto.
  • Propongo (da tempo) “la comune”, magari col sottotitolo “per un comunismo libertario”.
  • Il sito avrà dei sottositi cittadini o regionali: “la comune di Bologna”, “la comune sarda”.
  • La parte “nazionale” dovrà contenere, accanto a interventi sull’attualità, articoli “di lunga durata”, che restino visibili per almeno un mese, su cui impostare la discussione teorica e programmatica sui comunismi desiderabili: una rivista mensile online che sondi, volta per volta sotto diversi aspetti, “ipotesi sul comunismo libertario”.
  • Parlo con autoironia di ipotesi e non di tesi, le famose tesi del manifesto che vorrei provare collettivamente a riscrivere sul “blog”. Quella parola risente della pretesa terzinternazionalista di mettere le braghe al mondo. Le ipotesi hanno il vantaggio di essere provvisorie.

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati