Jobs Act: articolo per articolo la contro rivoluzione del lavoro

7 Gennaio 2015 /

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di Piero Borghi
Sì, è necessario entrare nel merito dello “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 1832”, licenziato dal governo Renzi il 24 dicembre 2014. Quello che, anche per chi non mastica l’inglese, prende l’esotica denominazione di Jobs Act. Ed è necessario farlo con pedanteria. Lo “schema” consiste in quattro paginette, contenenti dodici articoli. In questa sede ci occuperemo solo degli articoli 1, 2, 3 e 10 perché costituiscono il nocciolo dell’intero impianto, ovvero sono quelli che regolano i licenziamenti dei lavoratori.
L’articolo 1, “Campo di applicazione”, ci informa che la materia trattata è il licenziamento illegittimo di “operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Non si specifica se pubblici o privati. L’articolo 2, “Licenziamento discriminatorio”, ci dice che “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio” ordina la “reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”, oltre al risarcimento del danno subìto, come previsto dal “vecchio” articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Ci pare il minimo, a fronte di un licenziamento discriminatorio. Ma qui non si vuole criticare questo “minimo”; no, il fatto è che l’articolo 2 va letto come prequel dell’articolo 3. E allora l’articolo 3, “Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa”. Solo un datore di lavoro minus habens, che voglia licenziare chicchessia per qualsiasi motivo, procederà esponendosi al “discriminatorio” (articolo 2), proprio in virtù di quello che gli concede di fare quanto scritto nell’articolo 3. Vediamo perché.

È paradossale ma, nero su bianco, Troika su Costituzione italiana, illogico su logico, nell’articolo 3 si scrive che “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro” (ma come, mi hanno licenziato senza giustificato motivo, ecc, ecc, il giudice lo accerta ma convalida il mio licenziamento? Sono matti? Beh, sì. Riconoscono che ho il diritto di lavorare ma poi comprano il mio diritto al lavoro. I soldi come mezzo di pagamento dei diritti? Che so, oltre che del diritto al lavoro, del diritto alla salute (sì, dovevano curarmi, non lo fanno, ma mi danno soldi), o della casa (sì, avevo il diritto di abitarci, il proprietario mi butta fuori e mi da dei soldi), o della istruzione (vado a scuola, mi mandano a casa in cambio di soldi).
L’indennità prevista “non assoggettata a contribuzione previdenziale” sarà “pari a due mensilità dell’ultima retribuzioneper ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Ecco in che cosa consistono le famose “tutele crescenti”: indennizzare dando un poco di soldi in più a chi ha più anzianità di servizio (ma comunque non oltre ventiquattro mensilità, per chi lavorerà in imprese sopra i quindici dipendenti, e al massimo sei mensilità per quelli che saranno occupati in imprese fino a quindici dipendenti, riuscendo persino lì a peggiorare il trattamento odierno).
L’articolo 10, “Licenziamento collettivo”, in meno di cinque righe ci informa che anche per questi lavoratori c’è indennizzo senza reintegro al lavoro, anche nei casi di casi di violazione dei criteri di scelta dei licenziati. Le imprese potranno così, sostenendo di essersi sbagliate (errore di procedura), costruire elenchi di esuberi, con lavoratori sgraditi o sindacalizzati, senza pagare dazio (cioè senza cadere nel “discriminatorio”, vedi articolo 2. Il Jobs Act è sì “una rivoluzione copernicana”, ma nel senso che, eliminando (?) la fattispecie dei contratti a tempo determinato (in realtà ad oggi i contratti precari non sono stati cancellati), sostituendoli con quelli a tempo “incertamente indeterminato”, meno costosi per l’impresa dei primi, questi ultimi diventano, di fatto, contratti a tempo determinato, vista l’estrema facilità per l’impresa di interrompere il rapporto di lavoro quando le pare.
Perché tutto ciò? Cioè, stabilito, una volta per tutte, che non esiste alcuna relazione fra flessibilità del lavoro e occupazione, dipendendo quest’ultima dalla domanda effettiva di beni e servizi, che è quella che oggi manca, perché intervenire sul mercato del lavoro rendendolo ancora più precario? E ancora: l’urgenza di maggiore ” flessibilità in uscita”, come si scrive elegantemente per non scrivere facilità di licenziamenti, giustificata dall’asserzione che il nostro mercato del lavoro sarebbe toppo rigido, è confortata dai dati? Il mercato del lavoro italiano è meno rigido di quello francese e tedesco, più rigido di quello spagnolo (Fonte: Ocse 2014).
In buona sostanza si precarizza il lavoro perché in questo modo si abbassano i salari e, pure nella consapevolezza che ciò deprime la domanda interna (la gente ha meno soldi da spendere), si coltiva l’illusione di potere supplire a ciò con maggiori esportazioni (prodotti nazionali meno costosi per l’estero) non comprendendo che, dal momento che la corsa alle riduzioni salariali la fanno tutti i Paesi, l’aspettativa di maggiore export è vanificata. D’altra parte è la Germania il maggiore Paese esportatore netto mondiale ed è potuto diventarlo, anche, praticando la cosiddetta svalutazione interna, cioè nessun aumento medio dei suoi salari reali tra il 2000 e i 2010, a fronte di un aumento medio degli stessi, nei 17 paesi della zona euro, del 5% (Brancaccio, Passarella , 2012).
La Germania ha così accumulato crediti (nei confronti dei), ovvero creato debiti (nei), paesi importatori dei suoi prodotti (Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Francia). Crediti che esige. Più chiaramente: le imprese tedesche hanno venduto all’estero i propri prodotti e le banche tedesche hanno fornito all’estero soldi per acquistarli. Insomma, profitti e interessi in un colpo solo. Bisogna allora concludere che il Jobs Act non è affatto una misura anti crisi ma semplicemente una misura utile agli interessi padronali quando e se la crisi sarà risolta.

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