di Lorenzo Guadagnucci
Il rapporto del Senato statunitense sulle torture inflitte dalla Cia a decine di prigionieri e sulle prigioni illegali allestite in varie zone del pianeta, è stato da molti considerato un atto coraggioso, preludio di una svolta nella direzione di un effettivo rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, valori che sono nel Dna di ciò che intendiamo per democrazia, ma che sono spesso accantonati in nome della realpolitik.
Professare tanto ottimismo è al momento imprudente, per svariati motivi. Il primo è il tenore della discussione seguita alla pubblicazione del rapporto. Per un Obama che si lancia negli scontati proclami sui “nostri valori” e la “missione” degli Usa nel mondo, abbiamo visto leader politici di primo piano difendere la Cia con il ben noto argomento che in determinate circostanze è necessario fare ricorso a mezzi straordinari. La teoria dello “stato d’eccezione” tendenzialmente permanente non è stata scalfita dalla dettagliata descrizione degli abusi compiuti dagli agenti statunitensi e delle menzogne usate per coprirli.
In secondo luogo, non risulta che il rapporto abbia condotto a concrete conseguenze per gli autori degli abusi. Forse gli agenti, funzionari e dirigenti responsabili delle insopportabili violazioni che hanno “danneggiato l’immagine degli Usa nel mondo” (Obama dixit) sono stati consegnati alle autorità giudiziarie? Forse è stato avviato un repulisti all’interno degli apparati di sicurezza e nei ministeri competenti? Forse qualcuno ha chiesto scusa per il grave ritardo con il quale si è giunti a riconoscere ciò che è noto da anni (in qualche caso ci sono stati anche dei processi)? E sappiamo quanto sia importante per la prevenzione di abusi e torture che siano puniti gli autori degli abusi accertati. Se mancano le punizioni, si finisce per inviare a chi opera negli apparati un messaggio contrario rispetto a quello desiderato: si dice in sostanza che in ogni caso è possibile farla franca, che l’impunità personale è garantita.
In terzo luogo c’è da registrare la superficialità con la quale il rapporto è stato accolto in Europa. Molti stati – compresa l’Italia – sono stati (e probabilmente sono) coinvolti negli abusi della Cia: nei rapimenti di presunti nemici (le “extraordinary rendition”); nel trasporto e nella detenzione dei prigionieri; forse anche nell’allestimento di prigioni speciali e nella pratica concreta della tortura. Ma niente è successo dopo l’uscita del rapporto.
Anche in Italia tutto tace e a malapena è stata ricordata la vicenda di Abu Omar, l’imam rapito nel centro storico di Milano nel 2003 e trasferito in Egitto, dov’è stato torturato. Per questa vicenda sono stati condannati in via definitiva 22 agenti segreti e un militare statunitensi (pene da 7 a 9 anni, ma sono tutti in patria). Un fatto unico, che fa onore al nostro sistema giudiziario, molto meno al nostro sistema politico, che ha prima ostacolato le indagini opponendo il segreto di stato e poi, nella persona del presidente Napolitano, concesso la grazia a uno dei condannati, il colonnello Joseph Romano, l’unico militare fra i condannati (era in servizio alla base di Aviano utilizzata per il trasferimento in Egitto di Abu Omar). La realpolitik prima di tutto.
Non c’è da farsi illusioni. Per tornare allo stato di diritto, per sconfiggere la logica dello “stato d’eccezione” cara alle oligarchie oggi dominanti, c’è ancora molta strada da fare.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 17 dicembre 2014