di Raniero La Valle
(Prima parte) Le conseguenze della concezione del lavoro come male
Invece occorre vedere quali conseguenze devastanti ha portato nella storia della civiltà l’idea del lavoro inteso come maledizione e come pena. Prima di tutto ha portato a una società divisa in servi e signori. Perché il lavoro ci vuole, altrimenti la società non potrebbe vivere. Esso deve soddisfare alle esigenze della vita fisica, e dunque è legato alla materia Ma se il lavoro è afflittivo, se il lavoro è una pena, se è legato alla materia, esso ostacola lo sviluppo delle facoltà superiori dell’uomo, impedisce all’uomo di realizzare se stesso.
Nella concezione antica la pienezza dell’umanità si raggiunge infatti nell’esplicazione delle attività razionali, spirituali, nella contemplazione. Questa è la tesi di Aristotele. E questo è il problema della società greca: se tutti lavorano, l’uomo non si realizza. La soluzione viene trovata addossando il lavoro in modo esclusivo ad una categoria di persone, i servi, e salvaguardando dal lavoro un’altra classe di persone, i signori. La società non è una società di eguali, è una società di signori e servi. I servi sono inferiori in tutto ai signori, perfino nel fisico se ne differenziano perché devono essere adatti alla fatica. Sono paragonabili agli animali da lavoro.
Aristotele dice che se uno non è abbastanza ricco da permettersi un servo, può servirsi di un bue. Sono sullo stesso piano. I servi non hanno accesso all’assoluto, non possono dedicarsi alla contemplazione; del resto, esauriti nella fatica fisica non ne avrebbero la forza. Il lavoro staccato dalla contemplazione, privato dello spirito, aliena l’uomo, lo riduce a cosa (e questo lo dirà Marx).
Ma allora, in una società così polarizzata e ineguale, l’umanità non si realizza e l’umano si perde? Aristotele risponde che anche se una sola classe, o anche una sola persona di quella classe realizza la propria umanità, è l’umanità intera che si realizza. Questa antropologia della disuguaglianza ce la siamo portata dietro per tutta la storia. E si tratta di una diseguaglianza radicale; non dipende solo dalle condizioni economiche e sociali, è una diseguaglianza per natura per cui gli esseri umani non sono tutti eguali, o che si tratti della contrapposizione tra schiavi e liberi e servi e signori, o che si tratti dell’inferiorità della donna, o che si tratti di una diseguaglianza razziale, castale, religiosa, o che si tratti della diseguaglianza, teorizzata da Hegel (a proposito della conquista dell’America), tra popoli della natura e popoli dello spirito, cioè tra i popoli primitivi e la superiore civiltà europea.
Solo col costituzionalismo, con la Carta dell’ONU, con le dichiarazioni universali sui diritti umani sarà proclamata l’eguaglianza radicale di tutti gli esseri umani e di tutte le nazioni grandi e piccole. Però il vizio d’origine di una diseguaglianza irrimediabile tra gli esseri umani è riemerso sotto un’altra forma sia nella contrapposizione di classe che, lungi dallo scomparire, come crede Renzi, è diventata ancora più dura, sia perché nella società globale è divenuto sempre più spietato lo scarto tra un’umanità riuscita, che si ritiene in diritto di vivere e di essere protetta, e un’umanità minore che è destinata ad essere emarginata o a soccombere.
Questa antropologia della diseguaglianza si manifesta a livello di massa in quella che il papa ha chiamato la società dell’esclusione dominata dal denaro. Nella società globalizzata a livello mondiale sono più gli esclusi che gli inclusi. Obama ora vuole provare ad includere 5 milioni di ispanici che sono americani a tutti gli effetti, vivono in America, lavorano in America, ma ufficialmente non ci sono, non sono riconosciuti, sono uomini e donne che esistono solo in nero. E se anche ci riuscirà, contro le opposizioni che già si sono scatenate per impedirlo, altri 7 milioni rimarranno sommersi. Ed è in questo quadro allora che si devono osservare le condizioni del lavoro oggi e il grande conflitto che oggi è aperto in Italia.
Il conflitto sul potere
Il vero conflitto che oggi è in corso in Italia è un conflitto sul potere. Si parla di economia, di lavoro, ma in realtà si lotta per il potere. Le riforme annunciate, e in particolare le riforme costituzionali, la riforma elettorale, non hanno per oggetto il “che fare?” dell’azione politica, hanno per oggetto il potere, la quantità e qualità del potere. E ciò perché senza un potere incondizionato la società dei pochi in cui la maggioranza è esclusa non si può realizzare. C’è una sola cosa che si sottrae e che resiste alla società dell’esclusione, e questa cosa è il lavoro tutelato dal diritto. Finché il lavoro regge, la società della maggioranza esclusa non si può fare.
Perché ce l’hanno tanto con i lavoratori garantiti e con i sindacati che li difendono accusandoli come se difendessero un privilegio? Perché i lavoratori garantiti sono inclusi, non sono esclusi. Sono, come abbiamo detto, il punto di arrivo dello sviluppo della civiltà, che dalla condizione dei servi è arrivata fino allo Statuto dei lavoratori. Lo Statuto dei lavoratori e l’art. 18 che ne rappresenta la pietra angolare, sono l’apice della lotta per l’inclusione sociale, non solo dei lavoratori ma di tutti, e perciò sono il coronamento della Costituzione e dello Stato democratico di diritto.
L’attuale lotta contro i lavoratori garantiti, e perciò contro le garanzie del lavoro, non è una lotta a favore degli altri, a favore dei disoccupati o dei precari, ma è la lotta perché non ci siano più lavoratori garantiti, cioè perché non ci sia più niente che resti fisso, che sia stabile, che sia permanente. Infatti deve rimanere una sola cosa che sia fissa, stabile e permanente, e questa, come dice papa Francesco, è il denaro. Il denaro che invece di servire governa.
Marx lo chiamava il capitale, e capitalismo era chiamato il sistema in cui il capitale invece di servire, invece di essere trafficato per il bene collettivo come i talenti del Vangelo, dominava. Ora, quando Renzi dice che il posto fisso non c’è più, che pensare di avere un lavoro per tutta la vita è come voler mettere i gettoni telefonici in un I-phone, dice esattamente questo: i lavoratori garantiti, i lavoratori inclusi, la cui ingiusta esclusione può essere sanzionata da un giudice non esistono più, il posto fisso non esiste più. In questa società l’unica cosa fissa, che nessuno può contestare, che nessuno può escludere, è il denaro, è il capitale che è insindacabile anche quando con la sua voracità e con i suoi errori distrugge se stesso nella speculazione impazzita, dove il denaro non ha altro interlocutore che il denaro.
Questo regime però non si chiama più capitalismo. Non è politicamente corretto chiamarlo così. Questa parola è scomparsa dai giornali, dalle televisioni, dai dibattiti politici. Ma siccome non è scomparsa la cosa, anzi è l’unica veramente esistente, essa si chiama in un altro modo. Si chiama Unione Europea. “Ce lo chiede l’Europa”. Si chiama Maastricht, concorrenza, mercato. Il mercato rende illegittimo il ruolo samaritano della Repubblica che secondo l’art. 3 della Costituzione deve rimuovere gli ostacoli che sul piano di fatto impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese. Il mercato, e ormai i Trattati che ne fanno un regime, proibisce gli aiuti di Stato alle imprese, impedisce il ruolo dello Stato nell’economia, esclude l’attuazione dell’art. 3.
Perché questo modello di società si realizzi ci vuole un potere che non senta ragioni. Il potere com’è configurato nella Costituzione repubblicana non è adatto perché la Costituzione antifascista è stata scritta non per rendere incondizionato il potere ma al contrario per mettergli dei limiti e circondarlo di garanzie ai fini di preservare la libertà.
Per questa ragione se il fine ultimo è la supremazia della società del denaro, se l’obiettivo è la distruzione del diritto del lavoro e la revoca del suo ruolo come fondamento della Repubblica democratica, la fase intermedia è quella di costruire una macchina di potere che lo renda possibile. Questa fase è in corso da 25 anni da quando, dopo la “caduta” del muro di Berlino, si pensò che le garanzie stabilite dalla Costituzione del ’48 non fossero più necessarie. Secondo gli attuali riformatori, la Costituente del ’47 avrebbe lasciato a metà il compito di predisporre un governo funzionante ed efficace nel prendere decisioni, cioè avrebbe bucato il problema della governabilità.
Infatti dopo la rottura con i social comunisti del maggio 1947, nella seconda fase della vita della Costituente a causa della diffidenza reciproca tra i partiti, vennero privilegiate le garanzie nei confronti del potere e non furono varate “istituzioni decidenti”. Questa è la tesi del costituzionalista Stefano Ceccanti esposta sabato scorso in un convegno ad Orvieto. Si può osservare che quelle garanzie e quell’equilibrio dei poteri che nel ’47, all’inizio della guerra fredda, avevano messo in sicurezza la democrazia, avevano in realtà un valore non contingente, e avrebbero dovuto continuare a tenere in sicurezza la democrazia quale che fosse stata l’evoluzione dei sistemi politici e dei partiti.
Fatto sta che già nel giugno 1991 il Presidente delle Repubblica Cossiga in un messaggio al Parlamento dichiarava obsoleta la Costituzione del ’48, che si doveva cominciare a rottamare (allora si diceva “picconare”). È una cosa che vale la pena di sottolineare perché mostra che le proposte di riforme istituzionali sono sempre venute dal Palazzo, e mai dal popolo, anche se il popolo non ha mancato di chiamare in causa delle norme costituzionali, come quando i giovani con una massiccia obiezione di coscienza hanno fatto cadere l’obbligo del servizio militare di leva.
In ogni caso però la fase di riforme istituzionali a beneficio del potere si è rivelata molto più difficile del previsto perché la Costituzione ha resistito; però adesso i riformatori sono convinti di essere prossimi al risultato, sia perché sono già riusciti a cambiare di fatto il sistema politico portando un uomo solo al comando, sia perché starebbero per “portare a casa”, come dicono con sgradevole senso di appropriazione, la riforma della Costituzione e la riforma elettorale.
In questi termini la lotta sul lavoro è oggi nascosta dietro la lotta per il potere. La costruzione della definitiva macchina per il potere è la vera missione ed è il vero contenuto della politica dell’attuale governo.