di Felice Roberto Pizzuti
Crescono gli equivoci strumentali nel dibattito sul Tfr in busta paga che tira in ballo anche le pensioni e la crescita. Per fare il punto, è utile ricordare che il Tfr è una parte del salario (6,91%), messo a risparmio per le necessità che sorgono quando cessa il rapporto di lavoro o, prima, per spese particolari (sanitarie, per la casa, previdenza integrativa). Dunque il Tfr è già reddito dei lavoratori (anche se in molti cercano di appropriarsene) ma metterlo in busta paga gioca ad illudere che sia un aumento del salario.
La proposta governativa è accompagnata dall’ideologismo tardo liberista che si restituirebbe libertà di scelta ai lavoratori sul proprio salario; ma speculando sulle necessità immediate poste dalla crisi, si priverebbe ciascun lavoratore e l’intero sistema economico-sociale di un ammortizzatore contro la disoccupazione proprio mentre essa aumenta strutturalmente. E se è vero che il Tfr è una specificità del nostro sistema di welfare, ancor più sopperisce all’inadeguatezza delle nostre assicurazioni contro la perdita del lavoro. Con questo neoliberismo alle vongole, oltre a smontare lo stato sociale (proprio quando più serve), si potrebbe giustificare anche l’eliminazione di altre misure meritorie (che gli individui non riescono a percepire come tali) quali l’obbligo scolastico o delle cinture di sicurezza in auto.
Ma il provvedimento governativo, oltre a contraddire la meritorietà lungimirante che dovrebbe guidare l’azione pubblica, è addirittura ingannevole. Infatti, la “libertà” di disporre del Tfr in busta paga avrebbe un prezzo. Poiché l’aliquota fiscale sul Tfr è del 23%, cioè come quella minima applicata sui redditi lordi fino a 15.000 euro, per tutti i redditi superiori – cioè la maggioranza – l’anticipo in busta paga implicherebbe maggiori imposte; inoltre, potrebbe portare il reddito oltre la soglia di 26.000 euro, superando il limite per avere il bonus degli 80 euro al mese. Niente male come inganno!
La proposta governativa si basa poi su speranze macroeconomiche illusorie. Come mostra l’esperienza degli 80 euro in busta paga, è ragionevole prevedere che neanche la disponibilità del Tfr si traduca in maggiori consumi, perché la crisi accentua l’incertezza sul futuro. Nella situazione attuale di “trappola della liquidità”, una piccola disponibilità finanziaria aggiuntiva (che sostituisce e riduce un’entrata futura) non si traduce in aumento della domanda. Anche perché – e dovrebbe essere un aspetto primario in questo dibattito – nelle attuali condizioni di accentuata debolezza contrattuale dei lavoratori, l’aumento della busta paga derivante da decontribuzioni tenderebbe ad essere traslato, ovvero riassorbito, a favore dei datori di lavoro, specialmente nelle trattative individuali o con pochi dipendenti. In poco tempo, quel 6,9% del salario sarebbe perso dai lavoratori.
Gli equivoci nel dibattito sull’uso del Tfr sono accresciuti dalle contrarietà a trasferirlo in busta paga espresse da chi sostiene lo sviluppo dei fondi pensione privati anche sostitutivo del sistema pubblico; per i fondi, infatti, si ridurrebbe la loro principale fonte di finanziamento. Negli ultimi anni, la crisi ha accentuato l’attenzione sul fatto che, per via della cronica carenza d’opportunità d’investimenti finanziari esistenti nel nostro sistema economico, i fondi allocano all’estero il 70% del risparmio previdenziale da essi gestito e ne impiegano una parte irrisoria, meno dell’1%, in azioni di imprese italiane.
Per attenuare almeno quest’ingente fuoriuscita di risparmio, si è aperto un dibattito – che ha coinvolto anche le associazioni datoriali, i sindacati e rappresentanti dello stato – per stimolare una riallocazione delle risorse finanziarie dei Fondi a sostegno dello sviluppo economico nazionale. Questo tentativo è stato completamente spiazzato dalla nuova possibilità di trasferire il Tfr in busta paga; generando un ulteriore paradosso. Da più parti, la proposta governativa viene criticata per il suo effetto di ridurre il risparmio previdenziale, ma in nome dello sviluppo anche sostitutivo dei fondi pensione, rimuovendo dunque la circostanza tanto dibattuta che essi sono un canale di ingente trasferimento all’estero di quello stesso risparmio. Invece si continua ideologicamente a trascurare che il sistema pensionistico pubblico a ripartizione, oltre ad avere meno costi di gestione e offrire prestazioni non legate all’elevata instabilità dei mercati finanziari, trattiene per intero il risparmio che gestisce.
Volendo rispettare davvero la libertà di scelta dei lavoratori nell’uso del Tfr, ma senza indebolire il meritorio risparmio previdenziale, sarebbe molto più conseguente concedere la possibilità (oggi preclusa) di indirizzarlo, con tutta la flessibilità preferita da ciascun lavoratore, verso il sistema pensionistico pubblico, il cui sistema di finanziamento contributivo consentirebbe di aumentare la copertura pensionistica senza nessun costo gestionale aggiuntivo. Questa possibilità, già dettagliata in un progetto di legge, avrebbe anche l’importante benefico effetto di migliorare il bilancio pubblico; e se tali flussi contributivi aggiuntivi fossero indirizzati a finanziare investimenti infrastrutturali e innovativi, se ne gioverebbe ancor più lo sviluppo del Paese, chiudendo positivamente il cerchio che unisce meritorietà sociale e crescita economica. Può interessare alla politica?