di Noi Restiamo
Prima parte. In coda pubblichiamo la versione originale dell’intervista in inglese
Noi Restiamo: In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ovvero ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?
Jan Toporowski: Innanzitutto penso che uno studioso eterodosso non dovrebbe chiamare se stessa o se stesso eterodosso, perché così facendo si escludono immediatamente un gran numero di studiosi che non si considerano eterodossi. Ci si dovrebbe invece presentare come studiosi onesti e cercare di esserlo anche attraverso un atteggiamento aperto nei confronti degli altri economisti e del potere. A mio modo di vedere si dovrebbe sempre cercare di coinvolgere e discutere con coloro che sono in qualche maniera coinvolti con il potere e la finanza; questo è quanto ho cercato di fare e quanto ho dovuto fare.
Bisogna fare questo per una semplice ragione: essi hanno conoscenze sul potere, la finanza e i vari dettagli tecnici molto maggiori rispetto ad un accademico. Pertanto uno studioso critico ha bisogno di coinvolgerli e discutere con loro. La seconda ragione per cui bisogna confrontarsi con gli economisti mainstream è che essi non sono dei truffatori o servi dei capitalisti. In linea di massima essi cercano di essere onesti e cercano di svolgere il loro lavoro in maniera oggettiva, onesta e con integrità, sebbene attraverso il loro modo di vedere le cose. Se coinvolti, saranno più che felici di discutere i problemi da loro affrontati e ritengo che questo sia molto importante in quanto un economista critico ha bisogno di capire quali siano i problemi pratici ad ogni livello dell’attività economica.
Un economista eterodosso dovrebbe semplicemente mostrare quali sono i benefici del socialismo, non in maniera utopica, sostenendo che il socialismo porrebbe fine a tutti i nostri problemi, ma mostrando che è un sistema migliore. Inoltre in questo modo si instilla il dubbio nelle menti del nemico, mostrando quali sono le incongruenze e i problemi dell’analisi mainstream e neoclassica.
In breve ritengo che questo è il modo in cui un economista eterodosso dovrebbe comportarsi, ma vorrei sottolineare che non è possibile fare ciò senza coinvolgere gli economisti mainstream. Inoltre tengo a mettere nuovamente in evidenza che le proprie argomentazioni non dovrebbero essere proposte come appartenenti ad una certa scuola di pensiero. Non si dovrebbero escludere le persone a cui si vuole parlare, in quanto, se si è uno studente eterodosso, si ha l’obbligo di essere in grado di coinvolgere chiunque.
Concludo con Rosa Luxemburg, la quale credeva che il socialismo avrebbe liberato non solo la classe lavoratrice, ma che avrebbe liberato anche i capitalisti dalla loro schiavitù nei confronti del mercato e delle forze irrazionali del capitalismo. Penso che questa visione sia corretta e che sia quanto gli economisti eterodossi debbano fare.
NR: Posso commentare su questo? Sul fatto che dovremmo mostrare agli economisti mainstream le manchevolezze delle loro teorie. I miei dubbi derivano dalle conclusioni del “Dibattito sul Capitale”: alla fine Paul Samuelson stesso ha dovuto ammettere che le critiche all’esistenza della funzione di produzione aggregata, un aspetto fondamentale della macroeconomia ortodossa, erano solide. Si può dire che abbia alzato bandiera bianca. Il fatto è che dopo di ciò gli economisti mainstream hanno semplicemente sorvolato sulla questione, fingendo che non fosse successo nulla, ed oggi il Dibattito sul Capitale è relegato ai libri di storia mentre nei libri di testo dell’università si continuano ad usare funzioni di produzione Cobb-Douglas. Quello che voglio dire è che anche se le tue argomentazioni sono solide a livello teorico, forse ha poco senso dialogare con chi tanto non ti ascolterà. Se hanno aggirato con tanta naturalezza una questione così importante, perché dovrebbero ascoltare su altre questioni?
La funzione di produzione teorica, la funzione di produzione Cobb-Douglas e tutte quelle cose lì, sono problemi seri in questo approccio al Capitalismo. È una visione del Capitalismo in cui non c’è mercato e non ci sono processi di mercato, e in cui l’economia è vista semplicemente come un’impresa gigante. Ora, non lo è, e bisognerebbe criticare queste influenze, e le conseguenze politiche che se ne derivano. Per esempio da questa teoria si potrebbe concludere che l’economia funziona in uno stato di piena occupazione, che è chiaramente una cosa insensata. È una cosa che può accadere solo sotto specifiche assunzioni, che non necessariamente corrispondono alla realtà. Ma se ci sono persone che vogliono credere ad una funzione di produzione aggregata per la loro ricerca accademica, non credo che faccia la differenza. Prendete l’esempio di Robert Solow: è un gentile, compassionevole Keynesiano vecchio stile, e si merita rispetto per questo. Se vuole supportare i suoi punti di vista usando una funzione di produzione Cobb-Douglas, che lo faccia. Io non lo farei, ma se vuole è libero di farlo.
Fare accademia significa fare teoria tramite cui lavoriamo. Lo so che queste teorie sono molto importanti per le persone che lavorano all’interno delle università, ma non credo che importino nel mondo reale, dove le regole sono quelle dell’economia capitalista, ed secondo quelle regole che si determinano le politiche. Questo mi sembra molto più importante che disquisire su qualcosa.
Sapete, mi sono trovato in disaccordo con alcune visioni eterodosse della crisi del capitalismo. Non mi metterò a discutere con queste persone, perché in sostanza non importa. Per la maggior parte arriviamo alle stesse conclusioni, e se una persona sceglie di arrivare ad una buona conclusione in una maniera diversa, ecco penso che dovrebbe essergli permesso di farlo.
NR: Dal suo punto di vista, dove vede in questo momento sia in Italia che in generale nel resto del mondo movimenti e/o contraddizioni più interessanti, con un potenziale di rottura? Pensiamo ad esempio al ruolo della logistica in Italia.
JT: Parlando di sistemi economici internazionali quindi di economie capitaliste in generale, primo fra tutti i potenziali punti di rottura all’interno di tali economie è sicuramente il problema di ciò che sta avvenendo in Cina. La Cina è stata uno dei principali motori della crescita economica rispetto al resto del mondo, tuttavia di recente questo motore sta riscontrando serie difficoltà molte delle quali non sono ancora oggi ben visibili. In particolare, il fatto che la loro bilancia commerciale sia peggiorata, che non abbiano più surplus. Credo a tal proposito che le conseguenze finanziare di questa situazione renderanno la Cina più cauta nel futuro. Inoltre, se si aggiungono i problemi della forza lavoro e quelli ambientali la situazione cinese diviene di rilevante importanza all’interno dello scenario economico mondiale.
Un secondo punto di rottura è quella che potremmo chiamare la guerra ai più poveri, in particolare ai lavoratori e ai diritti sindacali. Questa situazione sta frenando la ripresa economica. Rispetto a questo punto specifico, ritengo che i sostenitori di teorie “sotto-consumiste” abbiano ragione, almeno parzialmente. Io credo che il risultato di entrambi questi fatti possa essere rappresentato dall’emergere crescente di nazionalismo e xenofobia in Europa, insieme ad una maggiore propensità verso le guerre. Abbiamo visto cosa sta accadendo in Medio Oriente, dove credo che le cose possano solo peggiorare.
Io penso che questi siamo tutti motivi di seria preoccupazione, soprattutto perché il rallentamento della crescita economica avrà effetti su molti dei paesi in via di sviluppo, su cui finora gli altri prezzi delle commodity avevano avuto un effetto stabilizzante. Non penso che questi prezzi possano essere garantiti in futuro, e penso che questo peggiorerà la situazione politica di questi paesi.
Versione originale in inglese
Noi Restiamo: in the Western World neoclassical economics has been completely dominant in the last 30 years. Also the visions over the crisis and the economic policy share a common ideological origin. Hence, how should an heterodox theorist position him/her self today? That is, does it make sense a “war of position” inside the academy, does it make sense to partecipate to the process of crisis management? Is it meaningful to partecipate to the institutional debate on what it should be done, or is it better to work in other places or spaces? This reduces to one question: is capitalism reformable and thus do we have to partecipate to its management, hopefully in an egalitarian direction, or not?
Jan Toporowski: In the first place I think a heterodox scholar should not call herself or himself a heterodox scholar, because if you do this then you immediately let a very large number of other scholars leave the room since they do not consider themselves to be heterodox. You should call yourself an honest scholar and try to be an honest scholar with an open attitude towards other economists and towards power. My view is that you should always engage and you should talk with people who are involved with power and with finance; certainly I have tried and I had to do this.
You have to do it for a very simple reason: they know a lot more about power, about finance and about the practical operations than an academic does. Therefore if you are a critical scholar you need to engage and discuss with them. The second reason why you need to engage and discuss with them is that they are not crooks or running dogs of capitalists. By and large they try to be honest and they try to work in an objective and honest way with integrity, although in their understanding of what is happening. If you do engage with people like them, you will find they are more than happy to discuss with you about the problems that they face. That is very important because a critical economist needs to understand what the practical problems at every level of economic activity are.
In my opinion a critical economist should express herself or himself in a very simple way: you show the benefits of socialism. You show them not in a utopian way, asserting that socialism would get rid of all problems, but asserting that is a better system. Secondly, you sow doubt in the minds of the enemy, showing what the inconsistencies and problems with mainstream and neoclassical analysis are.
In brief I think this is how a heterodox scholar should behave, but I emphasize that you cannot do this unless you engage with mainstream scholars. I also want to emphasize that you should not put your stuff forward as representing a particular school of thought. You should not exclude the people that you talk to, if you’re a critical scholar you have a duty to be able to engage with everyone.
I conclude with something which I have once read about Rosa Luxemburg. She believed that socialism would liberate not just the working class, but it would liberate the capitalists as well because it would take them out of this servitude to the market and to the irrational forces in capitalism. I think this is a fairy correct view; this is what a critical economist should do.
NR: May a comment on this? About the fact that we should show mainstream economists the faultiness of their theories. My doubts arise from the conclusion of the “Capital Debate”: at the end even Paul Samuelson had to admit the solidity of the argumentation against aggregate production function, that is at the very core of orthodox macroeconomics. He kind of “raised the white flag”. Yet, later on neoclassical economists just went around it, and pretended that nothing ever happened, and now the Capital Debate is just a page on History of Economic Thought textbooks, while they still go on using Cobb-Douglas production function in the manuals. My point is that if even from a theoretical point of view your argumentation is right, there may be little point in engaging a debate with a party that does not listen to you. If they went around so easily to such a big question, why should they listen to us in other matters?
JT: The theoretical production function, the Cobb-Douglas production function and all this kind of things, they are serious problems in this approach to capitalism. It is a view of capitalism in which there are no markets and no market process, but instead you see the economy as it was just one giant firm. It isn’t, and I think one should criticize this influences, the political and the policy conclusions that are drawn from it. For example if from this theory you conclude that the economy exists in a state of full employment, well this is quite clearly nonsense. It is clearly only true under those specific assumption. But if there are people who want to believe in the aggregate production function for the purpose of their academic research, you know, I am not sure it makes any difference.
Let me bring to you as an example Robert Solow. He is a kind, humanitarian, old-fashioned Keynesian, and he deserves respect for this. If he wants to support his views by using a Cobb-Douglas production function, let him do it. I wouldn’t, but if he wants he is free to do it. The academic means a theory by which we work. I know they’re very important for those who work by those theories, in the universities, but I don’t think they are very important outside the university, where the rules are those of capitalist economy, the way in which the capitalist economy operates policies and politics. That it seems to me far more important that to quibble on something. You know, I’ve expressed my disagreement with some heterodox ways of viewing the crisis of capitalism. I’m not gonna argue with those people because in a sense it doesn’t really matter. By large the conclusion we come to are fairly similar, so if a person chooses to come to a good conclusion in a different way, to me they should be allow to do so.
NR: from your point of view, where do you see the movements and/or the most interesting contradictions in capitalism, whit a potential of breakage? We are thinking, for instance, to the logistic sector in Italy.
JT: First from most of the potential breakage points in the capitalist economies in general -since we are talking about an international system- is the issue of what happens in China. China has been the engine of much economic growth in the rest of the world, but now that engine is coming upon serious difficulties and constraints which are not yet apparent. In particular, the fact their trade position is deteriorated, that they no longer have [trade] surpluses. The financial consequences of this would make them more cautious in the future. Moreover, adding to this the problems with the labor force and the environmental difficulties, China is going to be a major problem.
A second breakage point is the war on poor people in Europe which is particularly on workers and union rights and it is holding back the recovery of the economy. With respect to this, I think that the supporters of under-consumption are partially correct in their views.
I think the result of both of these facts would be the political consequence: the raise of nationalism in Europe and the raise of xenophobia and what comes with it, and a greater willingness to engage in wars. Indeed, we have already seen what’s happened in Middle East, I think the problems in the Middle East can only get worse at the moment.
I think all of these are causes for deep worry, in particular as the growth of the economy slows down, this will have effects on many of the developing countries, who have been stabilized up to now by high commodity prices. I don’t think that those could be guaranteed in the future, and this will poison the politics of those countries.