Dossier "Articolo 18": la mutazione genetica del Pd

15 Ottobre 2014 /

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Articolo 18
Articolo 18
di Rossana Rossanda
Neppure un’incorreggibile gufa come me avrebbe immaginato che Matteo Renzi avrebbe cercato di portare velocemente il Pd verso una mutazione genetica, anche se covava da tempo, forse da quando Achille Occhetto, in qualità di segretario, aveva chiesto il beneficio di inventario nel richiamarsi non alla presa del palazzo d’inverno del 1917, ma alla rivoluzione francese del 1789. La Costituente sì, la Convenzione no. Viva l’abate Sieyès, abbasso Robespierre. Ma sulla Dichiarazione dei diritti erano stati d’accordo tutti, ed è quella che i socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni hanno portato dentro la fabbrica con lo Statuto dei lavoratori.
Già era stato stupefacente per me che di tutta la direzione del Pd soltanto D’Alema e Bersani hanno dichiarato di non essere d’accordo con l’abolizione dell’articolo 18 e il contatto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che costringerebbe ogni nuovo occupato a tre anni di precariato prima di essere regolarmente assunto (e va a vedere se la creatività degli imprenditori italiani non troverà qualche marchingegno per far apparire “nuovo e primo” ogni tipo di contratto), in modo da far transitare tutta la manodopera da un apprendistato a un altro.
Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, piuttosto che a un arbitrato consegnato alla parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz’ora, a che serve?

La verità è che forse il Jobs Act va letto, suggeriva maliziosamente ieri Melania Mazzucco, come l’acronimo di “jump our business”, avanti subito con i nostri affari, ora che l’intralcio di un diritto dei dipendenti è stato gentilmente tolto di mezzo da quel che restava del Pci. Forse Renzi coglierà l’occasione per dichiarare, come già Veltroni, “Non sono stato comunista mai”. Eppure lo zoccolo duro del Pci, la base confluita nelle sue successive trasformazioni, è stata sempre costituita da gente che lavorava sotto padrone. Passata al Pd come i suoi dirigenti, aveva ragionevolmente creduto che colui che spediva a Palazzo Chigi l’avrebbe difesa. Quando ha cominciato a dubitarne, il partito si è andato liquefacendo. Oggi lo vediamo, il famoso 40 per cento degli elettori per l’Europa sono un milione in meno di coloro che votarono Veltroni nel 2008, per non parlare di Berlinguer. Il numero sempre più imponente degli astenuti modifica evidentemente le proporzioni fra una forza e l’altra, ma resta che i voti effettivamente avuti dai singoli partiti siano pochi, molti meno di quella che era la consuetudine italiana. Renzi farebbe bene a guardare in faccia il partito di cui è segretario e disprezzare un po’ meno i suoi iscritti, che sono stati e restano la parte più attiva dell’elettorato d’Italia.
Questo articolo è stato pubblicato su Sbilanciamoci.info il 7 ottobre 2014

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