Le origini del caporalato moderno e il libro di Pietro Alò / 2

3 Ottobre 2014 /

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Il caporalato nella tarda modernità - La trasformazione del lavoro da diritto sociale a merce
Il caporalato nella tarda modernità - La trasformazione del lavoro da diritto sociale a merce
di Antonella Beccaria
In vista d’evento di venerdì 3 ottobre, in programma a Bologna alle 18, pubblichiamo questo testo sul caporalato e sulla trasversalità di questo fenomeno. Qui la prima parte dell’articolo. Intervistata dalla giornalista Cinzia Romano, una di quelle ragazze aveva detto parlando dei caporali:
«Ma allora non vuoi capire. A noi ci trovano anche il lavoro nei campi o nei magazzini, dipende dal periodo. Quando ho cercato di fare per conto mio sono riuscita a mettere insieme sì e no venti giornate. Così invece supero anche le cento. Prima ho lavorato nel campo di carciofi, poi ho piantato e raccolto le fragole, adesso ripulisco i grappoli d’uva in attesa della vendemmia. Forse riuscirò anche a farla. Certo, la paga è da fame. A me fa rabbia che uno senza far niente intaschi diecimila lire e a me ne metta in mano sette o otto. Ma non c’è niente da fare: prendere o lasciare».
L’incidente del luglio 1980 era l’ennesimo di una serie che riproponeva episodi troppo simili l’uno all’altro e la cui matrice comune era sempre la stessa, il racket della manodopera femminile. I sindacati ricostruirono i precedenti partendo dal 1974 partendo dallo scontro verificatosi sulla statale Adriatica nei pressi di Monopoli. Un pullmino dei caporali che trasportava le occupanti al lavoro uscì di strada e rimasero uccise Franca Di Bello, Giuseppa Muolo e Anna Carria. Altre sei giovani, di cui due minorenni rimasero ferite.
Se gli incidenti successivi furono di entità più lievi, si tornò a contare i morti nel luglio 1977 quando Livia Pugliese, di Martina Franca, perse la vita sempre nell’impatto tra il mezzo dei caporali e un camion. Dodici donne riportarono lesioni, compresa una ragazzina di 14 anni, Cosima Besani. E due mesi dopo, nel settembre dello stesso anno, un incidente del tutto analogo avvenne nei pressi di Grottaglie coinvolgendo il pullman di lavoratrici dirette a Rutigliano per raccogliere uva da tavola. Quest’ultimo incidente fece aumentare i controlli della stradale e i sindacati annunciarono una nuova stagione di lotta al caporalato senza però a riuscire incidere più di tanto nella situazione che si viveva in quelle zone.

Quando si diffuse la notizia del nuovo incidente, quello del maggio 1980, Ceglie Messapico divenne il centro di un’estesa mobilitazione di maestranze e lavoratori. Sul palco allestito nella piazza centrale parlarono la sorella di Pompea, Vita, che aveva il braccio spezzato appeso al collo, e sfilarono i dirigenti sindacali di Uisba, Federbraccianti e Federazione Unitaria. Si aggregarono al corteo dei lavoratori rappresentanze dei consigli comunali di Bernalda, in Basilicata, Villa Castelli, Carovigno e Crispiano. E poi c’erano esponenti del consiglio di fabbrica della Montedison di Brindisi, della Frascari di Mesagne e della Lega dei giovani disoccupati di Francavilla Fontana.
Le organizzazioni bracciantili tornarono a farsi sentire con l’assessorato regionale ai trasporti perché si arrivasse a far prendere posizione ai vertici del settore al centro di tanti incidenti in cui avevano perso la vita le lavoratrici pugliesi. E per un po’ sembrò che qualche effetto si riuscisse a ottenere quando entrarono in funzione tre corse pubbliche che da Ceglie arrivavano nelle località battute dai caporali.
Ma le rappresaglie dei caporali – anche contro queste si manifestò alla fine del luglio 1980 – c’erano già state e tra le più cruente c’era quella di qualche giorno prima. Era il 17 luglio e i caporali avevano cercato di investire alcuni sindacalisti di Villa Castelli che sfilavano nel corso di una delle manifestazioni che erano seguite all’incidente di maggio. Erano già stati ripetutamente minacciati di morte per la radicalità del loro impegno contro lo sfruttamento e il 21 luglio si raggiunse un nuovo picco di tensione e violenza quando un commando di otto caporali armati fece irruzioni nella sede della Cgil. Si pensò, dopo il 24 luglio e la grande manifestazione unitaria che ne era seguita, che qualcosa sarebbe finalmente cambiato. Ma così non fu e anzi il fenomeno, nel corso dei due decenni successivi, si estese perché arrivarono dall’estero nuovi disperati che avrebbero accettato qualsiasi condizione, pur di guadagnare qualcosa.
1989, Jerry Masslo, il rifugiato che lottò contro l’apartheid dei campi
Tra le tante iniziative a lui intitolate, oggi c’è un premio che lo ricorda, quello della Flai Cgil nazionale. Accade perché Jerry Essan Masslo, il trentenne sudafricano ucciso a Villa Literno (Caserta) il 25 agosto 1989 dopo essersi visto riconoscere dall’Alto commissariato dell’Onu lo status di rifugiato politico, andava con altri stranieri a nutrire la popolazione della «piazza degli schiavi», dove i braccianti immigrati si radunavano per essere portati nei campi. I campi erano quelli che, per loro coltivazione, ricevevano contributi dall’Azienda per gli interventi sul mercato agricolo e dalla Comunità europea, ma qui Jerry, come tanti altri stranieri, lavorava senza alcuna tutela fino a quindici ore al giorno e come per le generazioni che sarebbero seguite veniva pagato a cottimo, tra le ottocento e le mille lire a casse da venticinque chili di prodotto.
A Villa Literno, come in molte città del Meridione, a metà degli anni Ottanta avevano iniziato ad assieparsi stranieri per lo più provenienti dall’Africa, molti dei quali erano stati respinti da altre nazioni europee, come la Germania e la Francia, che avevano irrigidito le loro legislazioni in merito all’ingresso di cittadini immigrati. «Al dicembre 1988», scrive il giornalista Giulio Di Luzio nel libro A un passo dal sogno, «risultano seicentomila gli immigrati censiti dal Viminale in possesso di permesso di soggiorno, ma il dato ne trascura altrettanti irregolari. Ogni etnia prenderà un posto in uno spicchio ben definito del Paese, i nordafricani […] in Sicilia, le capoverdiane, gli etiopi e i somali a Roma, i senegalesi nelle zone industrializzate del nord, soprattutto nel bresciano». E per chi viene arruolato nelle fila del caporalato, quando l’interminabile giornata di lavoro giungeva alla conclusione, per dormire non c’era altro che un cartone al posto del materasso e assenti erano acqua, luce elettrica e servizi igienici.
Nel 1988 Jerry Masslo trascorse due mesi a Villa Literno e alla fine dell’estate tornò a Roma, in attesa di un visto mai arrivato che gli concedesse di migrare in Canada. Era ancora lì, ospite di una comunità, quando giunse la stagione estiva 1989 e Jerry tornò nella cittadina in provincia di Caserta. Qui, a fronte di condizioni di lavoro ancora peggiori rispetto all’anno precedente, iniziarono i fermenti tra i lavoratori, Jerry compreso, che era diventato uno dei leader della protesta e che aveva chiamato direttamente in causa i sindacati. Nelle sue intenzioni, proprio lui che veniva dal Sudafrica, c’era di combattere l’apartheid a cui gli stranieri erano sottoposti una volta giunti in Italia e pagati, in media, 50 lire l’ora.
La risposta dei caporali non si fece attendere e cominciò con una serie di atti di intolleranza nei confronti degli stranieri. «È aperta la caccia permanente al nero. Data la ferocia di tali bestie […] e poiché scorrazzano per il territorio in branchi, si consiglia di operare battute di caccia in gruppi di almeno tre uomini», si leggeva su un volantino che circolava in quel periodo. E la situazione, che divenne via via più tesa, attirò l’attenzione dei media, tanto che la cittadina di Villa Literno vide arrivare giornalisti delle principale testate giornalistiche, comprese quelle televisive. La colpa di Jerry Maslo, quella che fece pronunciare definitivamente la sua condanna a morte, fu di aver offerto la sua testimonianza ai telegiornali, quella che sarebbe stata ritrasmessa dalla rubrica Nonsolonero del Tg2 il 28 agosto, nel giorno dei suoi funerali che furono, come richiesto dalla Cgil, di Stato, alla presenza di Gianni De Michelis, vicepresidente del consiglio dei ministri, e di altre autorità pubbliche.
«Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo Paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo».
Quando Jerry Masslo fu assassinato era la sera del 24 agosto 1989. La stagione stava volgendo al termine e il giovane sudafricano era rientrato nel capannone di via Gallinelle, dove avevano trovato all’alloggio anche altri ventotto stranieri. Qui entrò un gruppo composto da quattro persone a volto coperto e armate di spranghe, oltre che di armi da fuoco. Per prima cosa cercarono di farsi consegnare dagli immigrati presenti il poco denaro che avevano con loro. Alcuni obbedirono, ma altri si rifiutarono. Bol Yansen, un sudanese di 29 anni, ricevette un colpo alla testa con il calcio della pistola mentre Jerry Masslo fu colpito all’addome tra tre proiettili calibro 7.65 e morì quasi subito non riuscendo a sopravvivere abbastanza da essere sottoposto alle cure dei medici. Ferito invece un giovane del Kenya, Kirago Antony Yrugo.
Dopo i funerali dell’esule sudafricano – funerali a cui parteciparono migliaia di persone – l’eco della prima protesta degli immigrati contro il caporalato crebbe ancora di più e si denunciò in termini ancora più chiari che in precedenza i legami con la camorra. I fatti della provincia di Caserta vennero ricordati anche alla manifestazione romana contro il razzismo del 7 ottobre 1989. Nilde Jotti, ai tempi presidente della Camera, incontrò un gruppo degli immigrati che avevano lavorato con Jerry e l’estate successiva, quella del 1990, a Villa Literno fu inaugurato il «Villaggio della Solidarietà», struttura di accoglienza intitolata alla memoria di Jerry. Però la situazione degli stranieri in città non migliorò.
Altre «cittadelle» della disperazione sorsero in zona tanto che una di queste, arrivata a ospitare fino a duemilacinquecento persone, fu ribattezzata il «ghetto di Villa Literno», una comunità tutta al maschile e tutta di colore che viveva in modo staccato rispetto alla popolazione restante, con propri negozi, barbieri e macellerie. Il ghetto fu incendiato nell’autunno 1994 dai clan presenti in zona mentre si discutevano di interventi e finanziamenti pubblici per il risanamento dell’area. Avvenne il 19 marzo 1994, il giorno in cui Vincenzo Parisi, ai tempi della polizia, era giunto a Caserta per parlare proprio del ghetto. Ma si verificò un fatto che tolse attenzione all’incendio contro gli stranieri schiavizzati e radunati in quel luogo.
Quella mattina, infatti, a Casal di Principe, accanto a Villa Literno, fu assassinato nella sua chiesa il sacerdote antimafia don Peppe Diana e la situazione per i dannati africani del ghetto, «puniti» per aver cacciato uno spacciatore, rimase immutata e un secondo rogo, nell’estate 1994, contribuì a radere al suolo quel luogo. Ma c’è chi non ha mai creduto alla vendetta dei clan per il pusher allontanato dalla «cittadella» degli stranieri. Per qualcuno, quell’incendio, fu «di Stato», annunciato e senza che nessuno fermasse chi voleva appiccarlo. Lo affermò monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta, come avrebbe in seguito ricordato Renato Franco Natale, un medico di base che nell’estate 1989 era segretario della federazione del Pci di Casal di Principe (entrerà poi a far parte dell’Associazione Jerry Essan Masslo divenendone presidente) e secondo lui quel duplice incendio fu una punizione per il clamore sollevato dagli stranieri nei precedenti cinque anni, a iniziare dalla rivolta a cui aveva partecipato Jerry Masslo.
Tuttavia, come accaduto molte volte in passato e come sarebbe accaduto ancora molte volte in futuro, una volta che la situazione degli stranieri non aveva più rappresentato un argomento di attualità, sembrava che quegli uomini e quelle donne si fossero dissolti nel nulla. Eppure, nel corso del tempo, sono sempre stati lì, ad attendere prima dell’alba il furgoncino dei caporali che avrebbero caricato, come avvenuto altrove, prima solo africani e poi i nuovi schiavi provenienti dall’Europa orientale. E che mai se ne sono andato – semmai sono cambiati – c’è un documentario che nel 2012 ha vinto proprio quel premio intitolato a Jerry Masslo, per il cui omicidio sono stati condannati in via definitiva Giovanni Florio, Giuseppe Caputo e Michele Lo Sapio, tre ragazzi che decisero di raccattare un po’ di denaro approfittando dello stato di alcuni degli oltre seimila stranieri assiepati a Villa Literno.
È stato realizzato con un semplice telefono cellulare da due fratelli, Adam e Jean Yameogo, nati in Burkina Faso e provenienti dalla Costa d’Avorio. Ed è stato il loro modo per reagire a una realtà schiavistica fatta di dormitorio ben più che fatiscenti, appuntamenti con i caporali, le ore nei campi nelle campagne della Capitanata, le angherie e il ritorno al campo-dormitorio perché tutto ricominci da capo. Il documentario, che dura 18 minuti, si intitola Lo sfruttamento degli immigrati in Puglia. Caporalato e raccolta dei pomodori ed è stato premiato – ha spiegato la giuria – perché “non solo racconta le terribili condizioni di vita e di lavoro degli immigrati africani nel foggiano, ma perché le rappresenta dall’interno, mostrando aspetti del loro lavoro che difficilmente avrebbero potuto essere ripresi da un occhio esterno”.
La tarda modernità del caporalato
Alcune dei punti raccontati finora si trovano anche nel libro di Pietro Alò. E nel volume tante altre se ne possono trovare, soprattutto nella parte dedicata alle “storie di vita”. Scorrendo le pagine del lavoro del sociologo, molteplici sono i riferimenti alla “vita vissuta”, raccolti in interviste che si intersecano all’analisi più teorica del fenomeno. Da qui ne discende che “il caporalato, in quanto raccolta, trasporto, organizzazione e collocazione produttiva di merce lavoro, si presenta quale modello produttivo e di tipo sociale, arcaico, secondo i canoni della precedente ‘fase espansiva della modernità'”. Una fase che ha saputo trarre profitto dalla globalizzazione essendo “fenomeni della tarda modernità [che] costituiscono due approdi-limite che sottopongono a inedite forzature le contraddizioni sociali.
Lo testimoniano anche fatti successivi alla morte di Pietro Alò, come ciò che avvenne il 18 settembre 2008 a Castelvolturno, quando si consumò una strage in cui vennero ammazzati un pregiudicato campano, Antonio Celiento, gestore di una sala giochi e sospettato di essere un informatore delle forze dell’ordine, e sei cittadini stranieri, i ghanesi Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric e Christopher Adams, i togolesi El Hadji Ababa e Samuel Kwako e il liberiano Jeemes Alex. Quella mattanza era stata voluta da Giuseppe Setola, erede dell’ala scissionista del clan dei casalesi e capo dell’ala stragista dell’organizzazione, arrestato dai carabinieri il 14 gennaio 2009 quando compariva nell’elenco del trenta latitanti più pericolosi d’Italia. E senza andare a scomodare fenomeni di marca più nitidamente mafiosa, per comprendere la portata che il caporalato ha ancora oggi basta leggere un ultimo passaggio del libro di Alò: “Il fenomeno […] si configura come ‘anticipazione del neoliberismo’. D’altro canto, sotto questo preciso aspetto, il neoliberismo si configura come una modernizzazione barbara perché non produce modernità, ma ritorno allo schiavismo”.

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