Le origini del caporalato moderno e il libro di Pietro Alò / 1

2 Ottobre 2014 /

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Il caporalato nella tarda modernità - La trasformazione del lavoro da diritto sociale a merce
Il caporalato nella tarda modernità - La trasformazione del lavoro da diritto sociale a merce
di Antonella Beccaria
In vista d’evento di venerdì 3 ottobre, in programma a Bologna alle 18, pubblichiamo questo testo sul caporalato e sulla trasversalità di questo fenomeno. Quello del sociologo e senatore Pietrò Alò non è stato solo argomento di studio di una vita, ma una dimensione che risaliva alla sua origine, figlio di una famiglia contadina pugliese. Il caporalato, per lui, è diventato tema della tesi di laurea in scienze politiche e poi oggetto di indagini nella commissione d’inchiesta a questo fenomeno dedicata dal 15 aprile 1994 all’8 maggio 1996, nel corso della dodicesima legislatura. Ma anche approfondimento di un libro uscito cinque anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 (la pubblicazione del volume è invece del 2010), e intitolato Il caporalato nella tarda modernità – La trasformazione del lavoro da diritto sociale a merce (Wip Edizioni). Una trasformazione che l’incidere del tempo, delle tecnologie produttive e dell’evoluzione del mercato del lavoro non ha modificato in sé, se lo si intende come forma di sfruttamento che annienta chi ne è vittima. Semmai quel fenomeno è stato al passo altri cambiamenti, come la progressiva sostituzione degli italiani con i migranti o la gestione mafiosa – sia autoctona che straniera – della manodopera schiavizzata.
Sistema illecito di reclutamento per lavori agricoli stagionali sottopagati. La definizione del termine caporalato, contenuta nel dizionario della lingua italiana Sabatini Coletti, risale al 1978. E nel corso degli anni ha dovuto essere corretta perché, dai campi, il fenomeno si è esteso a molti altri settori. Ci sono gli scantinati degli italiani in cui in Campania si produce merce contraffatta e lo stesso avviene dei laboratori cinesi distribuiti nelle Chinatown di tutto il Paese, a Milano come a Bologna e a Prato. C’è l’industria del turismo che ogni estate accoglie in riviera villeggianti da tutto il mondo e ingaggia ragazzi non regolarizzati facendo della Romagna, della Versilia, della Liguria o delle coste calabresi un tutt’uno di sfruttamento, quando non di vera e propria prigionia nel caso degli stranieri che arrivano dai confini extra Schengen e a cui vengono sequestrati i documenti.
E e poi ci sono gli ultrellacinquantenni italiani, quelli espulsi dal mercato del lavoro e con scarse possibilità di rientrarvi, divenuti i nuovi obiettivi del caporalato. Vengono assorbiti in primis nella logistica e nei trasporti da cooperative «spurie» (forme di collocamento illegale a cui va tra il 30 e il 50 per cento dei compensi dei lavoratori), percepiscono un compenso che oscilla tra i 3,5 e i 4 euro all’ora e i loro turni di lavoro possono arrivare fino a 12 ore non scendendo in genere sotto le 10. Sono i nuovi poveri a rischio schiavitù che, secondo la Cgil, possono diventare un fenomeno destinato a consolidarsi se non si interviene per stroncarlo.

1920, una ribellione che viene da lontano
Il caporalato è un problema connaturato al mondo del lavoro e che ha fatto parlare di sé spesso solo quando sono scoppiate rivolte. Una delle prime della storia contemporanea italiana risale ai fatti del 1 luglio 1920 dopo una giornata di lavoro nella vigna che si trovava lungo che la strada che da Gioia del Colle conduce a Castellana, nel barese. La vigna era della famiglia Girardi, proprietaria della masseria di Marzagaglia, e quando era venuto il momento di essere pagati i «cafoni», così com’erano chiamati, si era presentati sull’aia dei tenutari, un’area di una settantina di metri di lunghezza per altrettanti di larghezza.
Nell’aria c’era nervosismo perché i soldi per la giornata di lavoro precedente non si erano visti. Il proprietario aveva accusato i braccianti di essere dei lavativi e di essere stati imposti, senza che ce ne fosse bisogno, dai disoccupati e dalle leghe. L’intenzione di Girardi, nonostante la vigna avesse davvero avuto bisogno degli interventi dei braccianti, era quella di non sganciare un centesimo e quando giunse la sera disse ai caporali di aprire il fuoco sui contadini. A sparare fu una quarantina di persone uscita d’improvviso da una masseria vicina, dove si era radunata in attesa di passare all’azione. La componevano piccoli proprietari terrieri e i loro massari e della loro presenza, oltre che delle loro intenzioni, si accorsero un operaio che lavorava non lontano da lì e suo figlio, ma non fecero in tempo ad avvertire i braccianti.
Quando furono investiti dalla pioggia di proiettili, i lavoratori cercarono di fuggire, ma furono inseguiti anche fuori dall’aia della masseria, quando cercarono di ripararsi nelle macchie della vegetazione e nei boschi circostanti. Alla fine sei furono le vittime: Pasquale Capotorto, il più anziano, che aveva 70 anni, Vito Falcone, Vincenzo Milano, Rocco Montenegro, Rocco Orfino e Vitantonio Resta, il più giovane, un sedicenne. I loro corpi rimasero a terra per ore, fino a quando in nottata non furono caricati su un furgone e portati alla camera mortuaria dell’ospedale Sant’Antonio del Colle. Una quarantina invece i feriti, di cui dieci erano in gravi condizioni.
Nel giro di un’ora, chi sopravvisse raggiunse la Camera del lavoro di Gioia del Colle e i capi del movimento contadino, come risposta a quanto era appena accaduto, indissero uno sciopero generale. Intanto si temevano le rappresaglie da parte dei lavoratori e nel giro di breve i carabinieri bloccarono l’ingresso della masseria di Marzagaglia mentre nella notte tra il 1 e il 2 luglio 1920 partirono squadre di braccianti per andare alla ricerca di chi aveva sparato. Nel frattempo sempre i lavoratori bloccarono l’accesso al paese e si armarono prelevando fucili e pistole anche nelle case degli agrari che non avevano partecipato al massacro, ma che consegnarono quanto veniva loro richiesto per timore di finire coinvolti nelle rappresaglie.
Il periodo era quello dei moti seguiti alla fine della prima guerra mondiale e il sud non aveva fatto eccezione raccogliendo echi e pratiche che arrivavano fin dal pianura padana. A Nardò, per esempio, nell’aprile precedente ai fatti di luglio i contadini avevano occupato le terre e nello stesso mese a Ruvo di Puglia una madre e il suo bambino furono uccisi dalla reazione delle forze dell’ordine. A Canosa di Puglia, a fine maggio, si registrarono tre morti e dodici feriti tra i braccianti che chiedevano di essere pagati mentre altre vittime si ebbero in giugno a Spinazzola, Bitonto e Terlizzi. E ancora in luglio, contemporaneamente alla strage di Marzagaglia, ulteriori morti si contarono a Parabita (una donna e tre uomini), a Castellaneta e a Lucera (in dieci persero la vita).
Tra la primavera e l’estate del 1920 sembrava insomma di essere giunti a una rivoluzione, quella a cui si aspirava in tanti settori: i lavoratori alzavano la testa e chiedevano il riconoscimento dei propri diritti. Non erano solo i reduci che, rientrati dal fronte due anni prima, avevano trovato una società del tutto cambiata, nella quale non c’era più posto per loro perché il posto di lavoro era andato ad altri, le donne avevano iniziato a diventare elementi importanti nelle industrie del nord e nei campi del sud. No, era qualcosa di più trasversale, era una voce che chiedeva la fine dello sfruttamento, dello schiavismo degli agrari sui cafoni. E a fronte di questa voce che si levava, la repressione dei carabinieri era puntuale ovunque. Con l’eccezione tuttavia della masseria di Marzagaglia, dove a imbracciare le armi furono i proprietari terrieri e i loro affittuari.
Che le loro intenzioni non fossero quelle di ascoltare i braccianti era chiaro da tempo e lo avevano ribadito il 26 giugno precedente quando avevano scritto al prefetto un telegramma in cui lamentavano «prepotenti invasioni» delle loro terre. E a placare gli animi, a riportare la situazione alla sudditanza di sempre, non ci avessero pensato le autorità preposte, avrebbero fatto da soli. Come fecero.
I braccianti superstiti non si fecero annichilire dalla reazione armata alla Marzagaglia e a propria volta si misero a dare la caccia agli agrari che avevano partecipato. Alla fine tre furono le vittime tra i proprietari e tra i loro guardaspalle, Giuseppe Nico, Vito Fiorentino e Giuseppe Pinto. Ma fu una specie di sipario calato sulle rivolte dei lavoratori perché, al di là dei proclami e con il fascismo agrario nascente, nel giro di poco di tornò al consolidato schema padrone-schiavo. E alla fine anche la sentenza del processo che scaturì dalla strage di Marzagaglia sembrò andare nel senso della normalizzazione.
Se in fase istruttoria i nomi in mano ai magistrati erano trentatré per gli agrari e ottantantotto per i braccianti (di cui quindici sotto i vent’anni), il 7 gennaio 1922 a giudizio vennero rinviati diciotto proprietari e quarantasette contadini. Il processo iniziò nel maggio successivo e il 31 agosto tutti gli agrari furono assolti con formula piena. Tra i contadini, solo due furono condannati a piene lievi e accadde perché avevano confessato le proprie responsabilità nell’uccisione di Giuseppe Pinto. Il periodo dei moti del Venti contro lo schiavismo era ufficialmente concluso.
1980, le schiave bambine di Ceglie
Edizione del quotidiano L’Unità di domenica 25 luglio 1980, pagina 12 con le cronache dalla Puglia. I fatti qui raccontati seguono la strage di Ceglie Messapico, provincia di Brindisi, avvenuta nel maggio precedente e il titolo che apre il primo articolo parla di «morte bambine nell’esercito di chi non può dire di no». Qui si parla della storia di Pompea Argentiero, 16 anni, Lucia Altavilla, 17, e Donata Lombardi, 19. Erano a bordo di un pullmino dei caporali finito sotto un camion e il bilancio delle vittime avrebbe potuto essere ben più tragico dato che sul mezzo viaggiavano altre quindici giovani (rare erano le anziane), mentre la capienza era al massimo per nove persone. Nell’incidente rimase ferita anche Vita, la sorella diciottenne di Pompea, che si ruppe un braccio.
Vestivano tutte più o meno nello stesso modo, jeans, magliette e scarpe da ginnastica o espadrillas perché nei campi era necessario avere un abbigliamento comodo. Per andare al lavoro, le ragazze no prendevano il pullman della Regione, ma quello della «ditta», molto spesso un Ford Transit che le trasportava in aree più ricche, dove i campi si susseguivano e lì c’era da darsi da fare. Così, dalla piazza di Ceglie, ogni mattina, i mezzi della «ditta» si spostavano a Noicattaro, Conversano, Mola di Bari, Monopoli, Rutigliano, Polignano a Bari e si spingevano anche fino al Metaponto. E se in giro si intravedeva una pattuglia della polizia stradale, le ragazze erano costrette a rannicchiarsi sotto i sedili per evitare che il pullmino fosse fermato e controllato.
Per tutte il caporalato era l’unica via per lavorare. Nonostante la giovanissima età della maggior parte delle ragazze, per tutte la storia familiare era più o meno la stessa: un marito disoccupato o la necessità di provvedere ai ormai genitori anziani e non più in grado di andare in campagna. Uscivano quando il sole non si era ancora levato e rientravano che il tramonto era già passato da un pezzo. Federbraccianti e il collocamento ci avevano provato a sfiancare il fenomeno dello sfruttamento, ma i caporali riuscivamo comunque ad aggirare le liste speciali, quelle per l’immigrazione, corrompendo funzionari pubblici. Inoltre, per le donne di Ceglie che avevano provato a dire no al caporalato, un lavoro regolare, con contratti e contributi, non era ancora saltato fuori perché la legge diceva che le lavoratrici avrebbero dovuto essere pagate venticinquemila lire mentre in nero se ne pagavano al massimo dieci, ma spesso erano meno.

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