intervista a Piergiovanni Alleva di Giacomo Russo Spena
Professor Alleva partiamo dal dibattito sull’articolo 18. Che impressione si è fatto? Chi ora lo difende è soltanto legato alle ideologie novecentesche?
Non è ideologia ma idealità, in particolare quella della dignità dell’uomo che non deve vivere sotto ricatto nei rapporti con i suoi simili. Nonostante il passare degli anni e dei decenni l’articolo 18 è una norma “sempre verde”, costituisce una norma anti-ricatto che pone il lavoratore su un piede di parità con il datore di lavoro. Senza tale tutela è in stato di soggezione. Con la disoccupazione al 10 per cento, solo l’articolo 18 garantisce un po’ di dignità ed è questo il motivo per cui subiamo ora un nuovo durissimo attacco: una volta intimoriti i lavoratori di perdere l’occupazione, sarà facile ridurre i salari e peggiorare la loro condizione con mansioni più umilianti o sottoponendoli a spionaggio. Infine, coloro che propongono di lasciare l’articolo 18 per i soli licenziamenti per motivi di discriminazione o rappresaglia – che il lavoratore dovrebbe dimostrare – sono degli ipocriti disgustosi perché sanno benissimo che quella prova per i lavoratori è praticamente impossibile. Spero di non dover mai annoverare tra questi anche gli esponenti della corrente di sinistra del Pd.
Il premier Renzi sembra contrapporre vecchia generazione versus la nuova. Così, per l’articolo 18, parla dei giovani che nemmeno sanno cosa sia tale tutela. Si può ragionare per contrapposizioni? E davvero i ragazzi d’oggi soffrono la precarietà anche a causa degli standard dei loro genitori?
È pura propaganda. L’idea di contrapporre garantiti e non garantiti è stata inventata anni fa da alcuni transfughi della sinistra passati dalla parte del padronato e che hanno ventilato una strana idea di giustizia secondo cui se solo la metà della popolazione ha il pane, la “giustizia” consisterebbe non nel dare il pane anche agli altri ma nel toglierlo ai primi. Questa velenosa e assurda propaganda ha avuto un qualche effetto sui giovani per un riflesso psicologico, molto umano. Invece dobbiamo lavorare per l’estensione dei diritti, a tutti. E ovviamente la precarietà dei giovani di oggi non dipende affatto dalle conquiste normative dei loro genitori, dipende dall’affermazione in tutto il mondo del neoliberismo per il quale il lavoro è solo una merce “usa e getta”.
Il governo per far approvare il Jobs Act fa leva su un altro sentimento diffuso tra i giovani: la crisi del sindacato. Non trova che quest’ultimo, negli anni, si sia dimostrato incapace di organizzare e difendere i precari? La Cgil, in primis, non dovrebbe rinnovarsi?
Sicuramente il sindacato non ha saputo intercettare bisogni e volontà delle giovani generazioni. Ma – almeno per quanto riguarda la Cgil – la colpa è essenzialmente delle legislazioni precarizzanti dei governi di centrodestra e della complicità degli altri sindacati. Ciò non toglie che un profondo ripensamento di metodi, di prassi ed anche di obbiettivi è sicuramente necessario, anche nella Cgil. Ed è sicuramente possibile, come dimostrato in questi anni dalla splendida lotta della Fiom contro il “pensiero unico” e la prepotenza di Marchionne.
Oltre all’art 18, il pilastro principale del provvedimento sul lavoro è il nuovo contratto unico a garanzie crescenti. Che ne pensa?
In realtà il contratto unico a tutele progressive potrebbe essere il modo per eliminare silenziosamente la tutela dell’articolo 18. Esso può essere attaccato in due modi: o direttamente modificando lo Statuto come già previsto dalla legge Fornero, o imponendo che d’ora in avanti i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato prevedano risarcimenti progressivamente più consistenti con il procedere degli anni per il caso del licenziamento ingiustificato ma senza più previsioni di reintegro.
In questo modo i lavoratori che attualmente godono della tutela dell’articolo 18 sarebbero da eliminare rapidamente con tanti sistemi. Pertanto bisogna essere molto attenti all’ipocrisia: gli opinionisti di sinistra che rifiutano l’aggressione di Renzi, Sacconi e Poletti all’articolo 18 ma le contrappongono, come forma di rapporto flessibilizzante, il contratto a tutele crescenti non si rendono conto a loro volta che se quest’ultimo non prevede esso stesso che dopo tot tempo il lavoratore possa godere dell’articolo 18, esso costituisce soltanto un modo soft di eliminarlo dall’ordinamento nel giro di pochi anni, dopo averlo ridotto ad una autentica rarità.
Nei giorni scorsi nel governo si è parlato del modello tedesco e del mini-job. Una possibile soluzione per il nostro Paese che – ricordiamo – ha in vigore una legislazione con 46 forme contrattuali esistenti, senza prevedere alcun tipo di sussidio universale o reddito?
Il premier Renzi è male informato. Sul mercato del lavoro in Europa parla quasi sempre a sproposito, ora del modello spagnolo, ora di quello tedesco o danese e così via. Il mini-job introdotto in Germania nel 1994 è considerato una vera pestilenza perché si è prestato ad ogni genere di abusi! Inoltre sarebbe già possibile in Italia nel senso che il mini job altro non è che un part time con orario massimo di 15 ore e retribuzione proporzionale sui 400-450 euro. Ciò che in Germania lo rende appetibile è che sconta contribuzione e imposizione fiscale a livelli minimali ma ciò ha aperto una vera voragine nei conti dei fondi previdenziali tedeschi e portato a tale conseguenza: se una persona per sbarcare il lunario intrattenesse 3 mini job con tre datori di lavoro diversi alla fine si troverebbe comunque con una pensione di 2-300 euro mensili. Un risparmio per gli imprenditori, sulla pelle dei lavoratori.
Dopo anni di precariato, a partire dal famoso “pacchetto Treu”, Renzi sta infliggendo il colpo finale ai diritti dei lavoratori?
Si, siamo arrivati al rush finale. Con i contratti a termine acausali da un lato e il contratto a tempo indeterminato senza tutele dell’articolo 18 dall’altro – e con misure aggiuntive quali la libertà di demansionamento – i lavoratori italiani sarebbero ridotti ad uno stato semi servile sul quale poi potrebbe impiantarsi la vera speculazione economica, ovvero introduzione di un salario minimo garantito di 6 euro netti (orari 8 lordi e cioè di circa 800 euro mensili) e abolizione attraverso disdetta e mancato rinnovo dei contratti nazionali. A questo punto saremmo veramente giunti a un livello da terzo mondo nella mercificazione del lavoro e nella sua umiliazione.
Da giuslavorista, quali sono le misure principali che introdurrebbe per superare la piaga della precarietà?
Gli interventi sono molteplici. Innanzitutto dovremmo rivedere il concetto di subordinazione per porre fine alle varie collaborazioni e false partire Iva, dall’altro riportare i contratti a termine ad una loro reale legittimità. Poi disboscare senza rimpianti la giungla del lavoro truffa (lavoro occasionale, accessorio, a chiamata, ripartito, etc) e rilanciare con la massima forza – per assorbire la massima parte di disoccupazione – i contratti aziendali di solidarietà espansiva.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 24 settembre 2014