di Sergio Sinigaglia
L’emergenza abitativa provocata dalla crisi in corso, ma sarebbe più opportuno definirla una nuova fase della shock economy, si fa sentire anche nei territori fino a non molto tempo fa citati ad esempio per il diffuso benessere. In questo senso le Marche sono una regione emblematica. Dati recenti del Sunia fotografano una situazione sempre più pesante. Nei primi sei mesi del 2013 le richieste di sfratto erano ben 2000, più di ottomila famiglie in liste di attesa per una casa popolare, mentre 100.000 gli inquilini che non pagavano l’affitto. Cifre che parlano da sole. Nel capoluogo regionale, il quale pochi giorni fa era indicato da una classifica del Sole 24 ore come la provincia della regione più colpita dalla recessione, la questione casa è venuta clamorosamente alla luce grazie ad una esperienza di occupazione che non ha precedenti non solo ad Ancona ma nelle stesse Marche. Per intenderci neanche durante il lungo 68 italiano da queste parti era accaduta una cosa simile.
Il 22 dicembre una sessantina di senza casa, la maggior parte immigrati, ha occupato un ex asilo comunale abbandonato da circa tre anni. L’iniziativa è stata promossa dal neonato movimento per il diritto all’abitazione “Casa de nialtri” ( in dialetto casa nostra) sviluppatosi all’interno del progetto “Ancona Bene Comune” a sua volta risultato di un’aggregazione post elezioni comunali, che ha coinvolto pezzi di sinistra politica (Sel e Pdci) e settori dell’associazionismo locale.
Poi il progetto, come capita spesso a sinistra, è venuto gradualmente meno, ma in compenso è rimasto in piedi il movimento per la casa sostenuto anche dal Gruppo Anarchico Malatesta ( da queste parti c’è una forte tradizione libertaria, a giugno si è festeggiato il centenario della Settimana Rossa), e dall’Unione Inquilini. Ma torniamo all’occupazione. La cosa ha prodotto uno sconquasso incredibile: da una parte si sono mostrati solidali con Casa de nialtri, varie associazioni, alcune categorie economiche, ampi settori del mondo cattolico, tanti singoli cittadini, mentre sul fronte avverso si sono schierati il neo sindaco targato Pd, l’avvocato Valeria Mancinelli, ovviamente la sua giunta, il Pd, cespugli vari e soliti benpensanti, anzi malpensanti…
La sessantina di occupanti rappresentava ben 14 Paesi: dal Pakistan alla Serbia, dall’India alla Repubblica domenicana. Praticamente un pezzo di mondo ha preso residenza nella struttura comunale di via Ragusa. In pochi giorni, anzi in poche ore, un luogo abbandonato, pieno di siringhe, è stato ripulito, arredato grazie al preziosissimo supporto di tante gente e della parrocchia del quartiere, il Piano San Lazzaro, una zona popolare con una forte presenza di immigrati. È nata così una esperienza sociale di tutto rilievo. Persone che non si conoscevano, hanno iniziato una convivenza all’inizio inevitabilmente complicata, poi gradualmente coinvolgente. I locali dell’ex scuola sono stati divisi in camere da letto, sala mensa, cucina e relativi servizi igienici. Il tutto gestito, anzi autogestito con assemblee quotidiane. Insomma una piccola repubblica! Una comunità pulsante che con il passare del tempo ha attirato verso di sé le attenzioni dei mass media, anche a livello nazionale, e diffuse simpatie.
Ma il tutto ha dovuto fare i conti con l’arroganza, la prepotenza del sindaco. Ha bollato l’occupazione come “rivoluzionari delle domenica” e “il far west”; al primo incontro all’interno dei locali ha intimato a tutti di andarsene. Poi, nei giorni successivi, ha proposto una “mediazione”: “Lasciate liberi i locali e vi sistemiamo in alcuni appartamenti del Comune e in una struttura della Curia presa da noi in affitto”. Il tutto per sei mesi poi si vedrà.
La maggior parte degli occupanti ha deciso di andare avanti. Così dopo che lo stesso prefetto incontrando una delegazione di consiglieri di Sel aveva invitato le parti ad arrivare ad una mediazione, il sindaco ha imposto alle autorità competenti lo sgombero. Il tutto è avvenuto con modalità allucinanti: all’alba del 5 febbraio trecento agenti, tra polizia, carabinieri, gdf e forestale, hanno militarizzato l’intero quartiere e sgomberato i pacifici abitanti di Casa de nialtri. Il pretesto per la brutale operazione è stato dato dalla necessitò di iniziare lavori di ristrutturazione della palazzina per poi assegnarla ad una fantomatica associazione di disabili a cui “da tempo è stata assegnata”. A più di cinque mesi non c’è traccia dei lavori e i locali sono sbarrati dalla tavole di legno attaccate durante lo sgombero.
Il gruppo degli occupanti è stato disperso in strutture provvisorie, mentre molti altri hanno lasciato l’Italia. Ma Casa de nialtri ha continuato la sua attività, bloccando degli sfratti, promuovendo incontri e cercando di ritessere la tela anche tra alcuni degli ex occupanti di via Ragusa.
Un lavoro paziente che il sei luglio ha portato ad una nuova occupazione. Questa volta nel cuore del centro storico, in locali di proprietà della Regione, un tempo sede della federazione del Partito Comunista. Rispetto all’esperienza precedente il numero delle persone coinvolte è minore, una ventina, ma il progetto è altrettanto valido e ambizioso. L’intento non è “solo” di dare vita ad un progetto pilota che punti al recupero delle tante strutture pubbliche abbandonate per avviare un’autorustrutturazione in grado di dare un prospettiva abitativa a chi non ha le possibilità economiche per inserirsi nelle graduatorie pubbliche.
L’intento di Casa de nialtri 2.0 è anche di far nascere laboratori artigianali, uno sportello casa e altre iniziative atte a fare società e creare percorsi di partecipazione. Questa volta l’interlocutore, al contrario del sindaco, ha subito dichiarato tramite l’assessore regionale al bilancio Marcolini (Pd) che il problema “è sociale non di ordine pubblico”. Ci sono stati due incontri. È stato formalmente presentato un progetto. I locali in questione sembrano già destinati ad altri soggetti. Ma come è stato detto anche durante la prima esperienza, a Casa de nialtri non interessa il posto in sé, ma l’obiettivo. Ci sono numerosi edifici pubblici abbandonati, comunali e regionali, adatti per essere restituiti alla collettivtà per fini sociali.
Sarà la volta buona?