Il fascino discreto della crisi economica: intervista a Luciano Vasapollo / 2

18 Luglio 2014 /

Condividi su

a cura del gruppo “Noi restiamo Torino”
(Prima parte dell’intervista) Nell’occidente, la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di trent’anni a questa parte completamente dominante; in maniera analoga anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi, ovvero ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia? Ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione magari in maniera più egualitaria, oppure no?
V: La risposta a questa domanda potrebbe concludersi in un secondo. Il capitalismo non è riformabile, di conseguenza non ci sono assolutamente le condizioni per una battaglia per la trasformazione interna alle istituzioni. Il luogo di un intellettuale militante è la strada: “Vamos por la calle” come dicono in America Latina. Mi spiego: il nostro ruolo è studiare, però interloquiamo con movimenti sociali, movimenti di base, le assemblee a democrazia partecipativa e i sindacati conflittuali, cioè quelli non concertativi.
Usciamo dall’eurocentrismo, non pensiamo che nonostante non ci siano le condizioni qui non ci possano essere da un’altra parte. Ricreiamo una condizione di relazioni internazionaliste di classe dentro a quello che è il conflitto chiave, ovvero il conflitto capitale-lavoro. Possono esserci infatti vari tipi di conflitti,come il conflitto capitale-ambiente, oppure quello capitale -democrazia, per carità, ma sono tutti leggibili all’interno del conflitto capitale-lavoro.

Chiaramente questa domanda tocca delle corde personali, nel senso che io sono un accademico e la domanda chiede “e allora in questa accademia che fai?”. La risposta è che faccio il marxista, non faccio differenza fra dentro l’accademia e fuori dall’accademia. I miei libri di testo sono i libri che scrivo e di cui discuto nell’ USB, come con i contadini senza terra, con i campesindios, con i rivoluzionari cubani, i venezuelani, boliviani, o dentro un centro sociale, un’assemblea dei lavoratori di altre strutture di base e conflittuali, eccetera. Quello che intendo è che non c’è differenza tra il mio curriculum, diciamo, accademico e il mio curriculum, per dire, di militante.
Questa domanda non mi sorprende affatto, e fate bene a pormela, ma cosa significa dire accademia, classici, neoclassici, neoliberismo? Che cos’è l’informazione, la comunicazione, e quindi la cultura se non la sovrastruttura di un qualcosa che è determinato dalle leggi del capitale? Potremmo mai aspettarci un’accademia sociale, socialista e aperta alle istanze del mondo del lavoro in un mondo capitalistico? Sarebbe insensato dal loro punto di vista: la prima cosa necessaria al capitale è il controllo delle menti. E come si fa? Attraverso le idiozie della televisione, le idiozie dei romanzi, le idiozie dei libri di testo.
È perfettamente accettabile e compatibile con questo sistema che la nuova classe dirigente si formi assaggiando un po’ di critica, per questo all’inizio dell’intervista ho criticato la nozione stessa di “eterodossia”. Un sistema capitalistico moderno sa ben convivere con un po’ di eterodossia.
Per fare un esempio, prendiamo la questione del conflitto capitale-natura: sei ambientalista? Bene, ma così finiamo a parlare di green economy, di sviluppo sostenibile, di modelli perfettamente compatibili col modo di produzione del capitale. Queste dinamiche sono ancora più sviluppate nei paesi in cui il capitalismo è più maturo che da noi: negli USA ci sono dipartimenti interi di marxismo nelle università, dipartimenti di ecologia etc. Ma qual è il problema? Il problema è che vengono considerati delle riserve, qualcosa da preservare ma che non può avere possibilità di interconnettersi con la società. Sei marxista e quindi stai lì da parte, fai le tue cose e non mi contaminare la società in termini di immettere il virus rivoluzionario della possibilità della trasformazione radicale.
Ora, portando alle conclusioni estreme questo discorso, qualcuno potrebbe chiedermi: allora come mai fai il professore? Il mio punto di vista è che, come marxisti, dobbiamo vivere l’accademia come un posto di lavoro, come una fabbrica del sapere e trovare come gli operai il sistema di inceppare l’ingranaggio, di immettere nel sistema saperi rivoluzionari, cultura di classe, sfruttare l’autonomia che tuttora possiamo difendere nel proporre programmi e modalità di insegnamento, essere incompatibili del sistema approfittando delle contraddizioni di sistema, facendo dei saperi il bene comune per eccellenza. E nella fabbrica, anche quando il livello della lotta era molto più alto, ci sono sempre stati compagni all’avanguardia, più politicizzati, che appartenevano ad un’organizzazione. Come c’erano le magliette a strisce o i tanti operai venuti dal sud, come mio padre, che magari non avevano una coscienza politica così radicata ma in compenso una grande rabbia e facevano gli scioperi selvaggi, i blocchi, il sabotaggio della linea di produzione, contrastando padrone ma anche la CGIL. C’erano quelli che avevano la coscienza di stare fuori dal sistema capitalistico agendo in maniera rivoluzionaria sul posto di lavoro, in maniera organizzata o meno, e poi invece c’era quello che cercava solo il quieto vivere, magari qualche ora di straordinario in più e di certe cose non voleva neanche sentir parlare.
L’accademia è una catena di montaggio, è un esamificio, è un luogo di una corruzione tremenda di cordate politiche e partitiche di baroni e baronetti, dove si incrocia il peggio dell’omologazione e del produrre saperi e menti per il sistema, per il perpretarsi di questa società del capitale. È poi alla fine il luogo dove i saperi e i gestori di questi saperi sono messi al servizio del potere.
Ora, che cosa può fare quindi un compagno, un rivoluzionario, un marxista dentro l’accademia? Innanzitutto può fare in modo che ci siano, non le voglio chiamare piccole isole felici, ma almeno dei luoghi in cui accogliere compagni che non accettano queste logiche e mostrare a tutti ma in primis agli studenti che non c’è solo il pensiero unico, che la scienza non è neutrale, che esiste il pensiero di classe e in questo chi propone saperi e modalita’ di trasmissione a favore del popolo che vive di proprio lavoro o della costrizione al non lavoro, al lavoro negato.
L’importante è che poi nel loro ruolo, che sia preside, direttore di dipartimento o rettore non importa, si facciano portatori di quelle che sono istanze anche rivendicative per il sapere, la cultura come primario bene collettivo, di qualità, gratuito. Perché sicuramente oggi nell’accademia non puoi fare la rivoluzione, però si possono adottare, per esempio, dei programmi di corso alternativi, contenuti di classe, modalità di trasmettere valori etici, sociali, politici derivanti dalla cultura popolare e destinati ad arricchire il patrimonio sociale, cioè in termini marxiani far sì che si facciano passi in avanti nella relazione fra sviluppo delle forze produttive e adeguatezza si rapporti sociali a favore della classe dei lavoratori.
Non ci si può piegare alla compatibilità del consociativismo anche culturale, come fanno molti miei colleghi, per paura di bruciarsi la carriera. E giocati la carriera, dico io. Nello stesso spirito con cui anche ai tanti operai, come mio padre, che protestavano, e magari venivano anche arrestati durante gli scontri, avrebbero fatto comodo centomila lire in più, anche loro avevano famiglie da sostenere. Però il problema è la trasformazione, il conflitto e la visione collettiva di un mondo diverso, senza piegarsi nell’individualismo.
L’accademico è inoltre anche un privilegiato, perché per quanto abbiamo subito negli ultimi anni una contrazione di stipendio, un professore prende tra i tremila e i quattromila euro al mese. Rispetto alla vostra generazione, siamo sicuramente dei privilegiati. Ecco, di fronte a questo un accademico dovrebbe mantenere quantomeno, e dico quantomeno, lo spirito costituzionale: difendere fino in fondo l’autonomia, la libertà di pensiero dei docenti universitari, di tutti.. Noi, a differenza di molte altri dipendenti statali, non siamo tenuti a prestare giuramento di fedeltà allo Stato. Un professore marxista dovrebbe entrare in classe il primo giorno e rivendicare la propria appartenenza politica culturale, che non significa assolutamente partitica a quella o altra organizzazione, ma semplicemente al mondo culturale e di classe di riferimento. Questo non vuol dire chiedere agli studenti di diventare tutti marxisti, ma avere almeno un’onestà intellettuale maggiore di chi professa “io sono un tecnico e quindi sono neutrale”. La neutralità della scienza non esiste. Tu ti poni per quello che sei e proponi un pensiero diverso.
Insomma, l’accademia non è assolutamente svincolata da quello che sta avvenendo nella società. I saperi non sono svincolati. Oggi si parla tanto di beni comuni, ecco, sicuramente un bene comune centrale, fondamentale, direi di prima necessità sono i saperi. In quest’ottica una battaglia che propongo da anni è quella contro il diritto d’autore e i brevetti. L’opera dell’ingegno deve essere socializzata, non può essere proprietà della multinazionale che fa pagare un vaccino cinquanta, cinquecento volte quello che costa.
Insomma, per riassumere, questa accademia sarà completamente riformabile in chiave sociale quando il sistema sarà diverso. Questo però non significa che non ci possa essere nel frattempo un ruolo, anche importante, per un militante marxista all’interno di essa.
Dal suo punto di vista dove vede in questo momento, sia in italia che nel resto del mondo, movimenti o contraddizioni interessanti con un ruolo di rottura? Pensiamo ad esempio al caso della logistica in Italia.
V: Innanzitutto, partendo dal nostro paese, metto sempre al centro la questione dell’indipendenza dei movimenti. Per indipendenza ovviamente non intendo indipendenza dalla politica. Qualsiasi movimento, anche quello più stupido di opinione, è completamente politico. Per indipendenza intendo quell’espressione forte che è autonomia di classe. Non l’Autonomia con la a maiuscola degli anni settanta. Intendo quell’ indipendenza di classe che negli anni si è sempre espressa come autonomia del mondo del lavoro e dei lavoratori da quelle che sono le regole dello sviluppo (o meglio dello sviluppismo) capitalista.
La classe che non deve cogestire il modello di sviluppo nelle regole del sistema del capitale. Con ciò intendo dire che non deve essere né concertativa né consociativa, né a livello di partito né a livello di sindacato. Parliamo di autonomia quando la classe esprime il massimo della sua potenzialità, in alternativa radicale al modo di produzione capitalistico. Questo è quello che voi
nella domanda chiamate rottura.
E quanto di questa dinamica troviamo in Italia o in Europa oggi? Non molto. Un po’, ma non molto. Vogliamo elencare i casi italiani? Il movimento dell’abitare, i movimenti contro la precarietà o quello dei migranti, con le loro contraddizioni e limiti, il sindacato indipendente conflittuale e di classe come può essere USB.
Al di là della sigle, i movimenti che esprimono questa potenzialità sono quelli che si danno continuità e non vivono sull’estemporaneità della rivendicazione che da tattica si fa stategica. Non mi fraintendete, la rivendicazione è importante: se nasce un movimento qua sotto per rivendicare che ci sia la fontanella, questo va bene. Il problema è: la fontanella è un momento tattico rivendicativo nell’orizzonte di un progetto di trasformazione o è la fontanella per la fontanella non inserita nel contesto piu ampio di un respiro che crei condizioni reali di trasformazione?
Io non critico Tsipras o altri per la lotta alla precarietà, certo che va fatta, la lotta per la tassazione dei capitali, certo che va fatta, la lotta per il reddito sociale, certo che va fatta. I momenti rivendicativi e tattici devono esserci. Ma quando il momento tattico-rivendicativo diventa la tua unica strategia e non sei in grado di andare oltre quello, allora hai perso. Anche perché il capitalismo è ben pronto a fare politiche di redistribuzione, se ne ha la possibilità. Perché dover alimentare il conflitto, quando può facilmente evitarlo? Oggi il problema è la crisi, altrimenti le politiche redistributive continuerebbero.
Ma quindi qual è il problema? I problemi sono tanti: l’involuzione dei sindacati storici e dei partiti della sinistra, compresi i cosiddetti marxisti o comunisti, l’eurocentrismo, l’incomprensione dei nuovi soggetti del lavoro e del non lavoro, della nuova società, il nuovo blocco sociale ma anche il nuovo blocco storico (parlando in termini gramsciani), ma anche delle condizioni di classe e del conflitto di classe. A questo aggiungiamo una parola scomoda: il “tradimento” di quelli che sono i principi fondanti del marxismo e del socialismo che ha fatto sì che oggi la condizione dei rapporti di forza dalla parte dei lavoratori in Europa sia di estrema debolezza.
Giro molto il mondo, non certo da turista ma da intellettuale militante, in particolare l’America Latina, e se devo parlare onestamente devo dire che oggi c’è una condizione di rapporti di classe che è estremamente sfavorevole alla classe lavoratrice. Quando i compagni in America latina parlano di socialismo possibile qualcuno si incazza e dice: “esiste il socialismo, non quello possibile”. Però quando Fidel ben sottolinea che la rivoluzione è il senso del momento storico intende proprio questo. Tenete sempre conto che tra quello che vorremmo fare e quello che facciamo in politica ci sono i rapporti di forza di contesto internazionale. Perché se le relazioni di forza in campo sono estremamente sfavorevoli, puoi essere abbattuto con un soffio. Questo significa che bisogna avere una grande capacità tattica senza rinunciare all’orizzonte, quello rivoluzionario del socialismo.
La domanda è quindi dove vedo di più questi momenti di rottura; secondo me il conflitto capitale lavoro è più aspro, più diretto in primo luogo in America latina, perché è lì che si coniuga l’oggettività delle condizioni drammatiche generate dal capitalismo (non dimentichiamo che tutt’oggi, e non stiamo parlando di Pinochet o dei generali argentini, vengono uccisi quotidianamente sindacalisti militanti in Perù, in Colombia) con una soggettività in movimento. Sia soggettività che nasce dai movimenti di liberazione, sia all’interno di nuovi movimenti progressisti, democratici, e anche rivoluzionari.
Una spinta di classe e rivoluzionaria che stiamo seguendo con estrema attenzione è quella dell’ALBA. Cuba non è più sola. In maniera diversificata, ovviamente, l’ALBA contiene diversi processi di transizione al socialismo. Dico in maniera diversificata perché il socialismo chavista bolivariano è completamente diverso da quello cubano, martiano e marxista, e a sua volta quello martiano è diverso dal socialismo comunitario di Morales in Bolivia, e questo a sua volta è diverso da quello in Ecuador etc. Tuttavia lì ormai non parliamo più di laboratorio: lì c’è un’area, un’alleanza, che è sicuramente caratterizzata da una presenza di principi basilari e costituzionali applicativi che sono anti-capitalisti e anti-imperialisti. Poi, tutti i processi hanno limiti e contrasti. Però questa ormai è un’area che si sta definendo nei percorsi anche contraddittori della transizione socialista.
Poi chiaramente una crisi globale così violenta come quella degli ultimi anni non ha favorito questo progetto. Ovviamente in un momento di crisi si approfondiscono anche le contraddizioni interne ai vari paesi, e bisogna stare attenti ai rapporti internazionali e via discorrendo.
Al di là dell’ALBA, che meriterebbe un discorso a parte, delle rotture possono venire da una nuova relazione nel Sud del mondo, dove per Sud non intendo necessariamente una connotazione geografica. Quando dico Sud intendo la parte del mondo che ha subito di più l’imperialismo, il colonialismo, la colonizzazione, le condizioni di sfruttamento e di super sfruttamento, ovvero quella che una volta chiamavamo, in termini Guevariani la “Tricontinental”: America latina e centrale, Africa e Asia. Ma oggi possiamo allargare questo discorso ai PIIGS, alle condizioni del Sud-Europa, è lì che possiamo trovare con più facilità momenti di rottura.
In tutto questo ci sono soggettività adeguate? No. Sarei disonesto a dire altrimenti, come compagno, come rivoluzionario, come intellettuale e come marxista. Non ci sono le soggettività, diciamo che abbiamo qualche piccola macchia di leopardo. Dove forse la macchia di classe e rivoluzionaria più grande e promettente è quella dell’ALBA, anche se ci sono naturalmente altre sacche di resistenza.
Bisogna invertire in chiave di un reale e organizzato internazionalismo di classe questo rapporto Nord-Sud, tra paesi a capitalismo maturo e paesi colonizzati, a vari stadi e in maniera diversa. Di fronte alla nuova competizione internazionale inter-imperialistica, va creata invece una nuova globalizzazione della solidarietà e della complementarietà dei popoli, ovvero quello che io chiamo, sarò un vecchio marxista, l’internazionalismo socialista.

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati