di Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi
Finora, chi contestava il progetto governativo di riforma del Senato, veniva definito un “conservatore”. Una definizione che non ci piaceva, anche perché non corrispondeva a verità (ci siamo sempre dichiarati d’accordo per una riforma del Senato, che non alterasse i delicati equilibri previsti dalla Costituzione e lasciasse a questo importante organismo parlamentare un ruolo elevato, da “Camera alta”).
Adesso, però, si va oltre e si afferma che chi si contrappone a quel progetto, assume addirittura il ruolo di un “sabotatore” della possibilità per il Paese di uscire dalla crisi; una possibilità che sarebbe offerta dalla disponibilità dell’Europa ad allentare il rigore attuale per chi si impegni a fare riforme. Insomma, chi dissentisse e continuasse ad impegnarsi per una soluzione corretta e corrispondente alle linee di fondo della Costituzione, farebbe il danno del Paese.
Questo significa porre un’alternativa inaccettabile, tra l’adesione al “pensiero dominante” e la libertà di pensiero per i cittadini e di coscienza per i parlamentari, nonostante l’esistenza – nella Carta Costituzionale – di una norma (il famoso art. 67) che esclude vincoli di mandato e, implicitamente, obbedienza a legami di partito. Un’alternativa del genere è sempre grave e improponibile; ma lo è ancora di più quando si tratta di materia costituzionale, dunque di particolare delicatezza, visto che si tratta del documento su cui si basa la stessa convivenza civile di una nazione.
Ma è opportuno andare ancora più a fondo della questione, per chiedersi se per questa alternativa, che abbiamo definito come improponibile, non manchino addirittura i presupposti di fatto.
Anzitutto, sulla consistenza degli impegni dell’Europa, allo stato attuale, a concedere maggiore flessibilità rispetto al rigore fin qui praticato, c’è veramente da dubitare, perché non c’è nulla di scritto che abbia veramente un significato concretamente positivo, e le voci con cui ci si esprime sono spesso contraddittorie. Alle scarse e generiche “aperture” si contrappone, infatti, il rigido e duro discorso del capogruppo del PPE al Parlamento europeo; le generiche dichiarazioni della Cancelliera tedesca non solo non esprimono impegni reali, ma risentono anche dell’intento di non compromettere l’ascesa, non ancora compiuta, di Junker al ruolo di Presidente della Commissione. Quindi, sotto questo profilo, abbiamo in campo più speranze che certezze, al di là di ogni forma di propaganda e dello stesso impegno del Presidente del Consiglio, a cui auguriamo sinceramente un successo sul fronte europeo, che però ancora non c’è.
In secondo luogo, se anche fosse vero che ci “promettono” più flessibilità in cambio di riforme, bisognerebbe sapere a quali riforme possano essere interessati i nostri interlocutori europei. Viene subito da pensare che difficilmente si potrebbe far riferimento a quella del Senato, perché è assai probabile che – per gli europei – si tratti di un nostro problema istituzionale interno, che ben poco è destinato a spostare sulle tematiche dell’uscita dalla crisi, della crescita, dello sviluppo.
La prova sta nel fatto, che ho già rilevato altre volte, che riforme istituzionali del tipo della nostra, sono state e sono in discussione in altri Paesi, senza che a questo – in Europa – si sia prestata o si presti la benché minima attenzione. E non può che essere così, perché è ovvio che una differenziazione del lavoro delle due Camere, comunque la si voglia realizzare, potrebbe condurre, al più, ad una modesta accelerazione del procedimento legislativo ordinario; tanto meno significativa e rilevante in concreto, ove si consideri che una riforma del Senato non potrebbe entrare in funzione in tempi brevi, ma sarebbe destinata ad essere operativa addirittura fra qualche anno (con la prossima legislatura), a crisi – speriamo – ormai superata.
Ragionando seriamente e cercando di metterci nei panni dell’Europa, c’è da pensare che un interesse per le nostre riforme potrebbe davvero manifestarsi se esse incidessero sull’economia, sul fisco, sul lavoro, sui rapporti sociali, sulla modernizzazione della burocrazia, sul contenimento dei fenomeni mafiosi, sugli investimenti, e così via. Ma proprio tutte queste materie appaiono, allo stato attuale, più enunciate (e neppure tutte) che realizzate e realizzabili a breve scadenza. E nessuno è riuscito, finora, a dimostrare per quali ragioni, una priorità assoluta dovrebbe essere assegnata alla riforma del Senato. Né gioverebbe riferirsi ad un possibile risparmio di spesa, non solo perché non si risparmia modificando le istituzioni previste dalla Costituzione, ma anche perché i “risparmi” sarebbero praticamente inesistenti; e in ogni caso, è stato già proposto da varie parti di “risparmiare” riducendo il numero sia dei Senatori che dei Deputati.
In effetti, c’è un divario assai rilevante tra l’elenco delle priorità, su cui quasi tutti concordano, e quelle che – invece – vengono trattate concretamente come tali .
Accade così, paradossalmente, che le misure di cui non solo si parla, ma ci si occupa più spesso, sono proprio quelle che hanno, in realtà, un ruolo marginale rispetto alle possibilità reali di uscire dalla crisi, di incentivare la crescita e lo sviluppo, di raggiungere forme vere di equità sociale.
In una Repubblica fondata sul lavoro (l’art. 1 della Costituzione è sempre lì a ricordarcelo), accade che i dati ISTAT sono terrificanti, la disoccupazione ha raggiunto livelli inaccettabili per qualunque Paese, il precariato altrettanto; ed è gravissimo il dato secondo il quale moltissimi giovani non cercano neppure più un lavoro, perché hanno perso ogni tipo di fiducia e di speranza.
Sembrerebbe logico, allora, occuparsi di investimenti, di innovazione, di ricerca, di sviluppo e delineare un “piano del lavoro” che non attenesse tanto alle regole ed ai rapporti giuridici, quanto alla possibilità ed alla prospettiva di creare nuovi posti e nuove opportunità di lavoro.
Ma è proprio su questi piani che si è particolarmente carenti; e soprattutto la fretta è molto minore rispetto a quella di “abolire” (o modificare radicalmente) il Senato.
Se vogliamo convincerci di tutto questo, basta collocarsi addirittura nella prospettiva di chi fin da gennaio ha preannunciato un “job act” e poi lo ha concretato in un disegno di legge depositato il 3 aprile in Parlamento. Prescindendo per il momento dai contenuti, limitiamoci ad osservare le date e le prospettive. Ad oggi, il testo è ancora in sede di Commissione Lavoro, dove è stata appena chiusa la discussione generale e, nella seduta del 3 luglio, il Presidente ha annunciato che a partire dall’8 luglio si comincerà a votare sugli emendamenti, essendo stato il provvedimento calendarizzato per l’Aula subito dopo la conclusione dell’esame del disegno di legge di riforma costituzionale (1429) e del decreto legge sulla competitività (1541) e dunque “presumibilmente a partire da mercoledì 16 luglio”.
Come si vede, si tratta di una previsione un po’ incerta, perché non è affatto detto che per i due provvedimenti che dovrebbero concludersi, i tempi previsti siano sufficienti. Ma supponiamo che davvero tutto proceda secondo i piani prestabiliti, che quei provvedimenti vengano approvati rapidamente, che si passi all’esame del disegno di legge sul lavoro e lo si concluda altrettanto rapidamente, cioè entro luglio. Ma poi, non essendo stato ancora abolito il bicameralismo, il provvedimento dovrebbe passare all’esame dell’altra Camera. Facciamo l’ipotesi più benevola (e poco realistica), che l’approvazione avvenga entro settembre e quindi la legge possa essere promulgata subito; è a questo punto che occorre ricordare che si tratta di una legge-delega, che fissa i princìpi generali, riservando al Governo il compito di emanare i decreti delegati entro sei mesi. Il che significa che nell’ipotesi più rosea e ardita, questi provvedimenti potrebbero entrare in vigore solo a marzo 2015; e sicuramente gli eventuali effetti positivi sarebbero percepibili solo dopo un ulteriore lasso di tempo. Come “priorità”, non c’è male, anche – ripeto – nell’ipotesi più favorevole.
Questo significa che, nel pensiero dominante, le riforme più urgenti non sembrano quelle che attengono all’economia ed al lavoro. Se si pensa, invece, di anticipare ad ogni costo, la riforma del Senato (e magari, la legge elettorale), vuol dire che si parte da criteri e ragioni diverse da quelle che sarebbero imposte dalla razionalità.
Sotto questo profilo, non è difficile ipotizzare che si tratti soprattutto di un problema di immagine e che alle priorità effettive si anteponga l’intento di portare a casa al più presto il “trofeo” del Senato “riformato” (qualcuno ha parlato, allusivamente, di “scalpo”), per esibirlo in Europa a riprova del decisionismo e della autorevolezza governativa. Noi pensiamo che è giusto aspirare ad una forte credibilità in Europa, ma non a qualunque prezzo.
In più, sarà davvero sensibile a queste scelte, l’Europa? Sarà disponibile a concederci favori per qualcosa che non attiene alle vere questioni economico-sociali? Ne dubito sinceramente.
Si noterà che non ho parlato dei contenuti del Job Act; e l’ho fatto deliberatamente perché, al momento, è il problema meno rilevante, viste le date e le scadenze. Se ne parlerà a tempo debito, limitandoci, per ora, ad osservare che, accanto ad alcune norme che potrebbero essere considerate positive, ce ne sono molte altre che, sul piano della creazione di posti di lavoro e di riduzione della precarietà, significano ben poco e sono tutt’altro che produttive di effetti concreti e di sicura incidenza su un quadro economico-lavorativo assolutamente disastroso. Ma ci sarà tempo e modo per tornare sul tema. Adesso, si voleva soltanto dimostrare l’inconsistenza del vincolo che si vorrebbe imporre alla libertà di giudizio dei parlamentari e dei cittadini.
Non a caso, del resto, si evidenziano non solo incertezze, ma vere e proprie contrarietà all’interno di tutti (o quasi tutti) i gruppi parlamentari. Contrarietà che aumentano quando, assieme alla riforma del Senato, si passa a considerare anche il problema irrisolto della legge elettorale, approvata solo dalla Camera, ma su un testo che molti dichiarano di voler cambiare perché inadeguato a riconoscere i diritti dei cittadini e in particolare quello alla rappresentanza, e in ogni caso contrastante con princìpi affermati dalla stessa Corte Costituzionale.
Queste inquietudini, queste contrarietà, che si vorrebbero contenere ponendo un’alternativa improponibile, dimostrano – invece – che c’è ancora – per fortuna – una sensibilità e un’attenzione per i problemi che sempre una riforma costituzionale deve proporre a chi ha la responsabilità di adottare modifiche; ma dimostrano qualcosa di più, la rivendicazione della propria libertà di fronte a vincoli impropri e la riaffermazione della libertà di coscienza di chi sa che cosa significa essere un parlamentare della Repubblica, secondo i princìpi enunciati dalla Costituzione.
Tutto questo, unito ad una crescente presa di coscienza, da parte di molti cittadini, della reale posta in gioco e della delicatezza dei problemi da risolvere, impone riflessione, saggezza e senso di responsabilità per chi si trova a svolgere un ruolo di particolare importanza in un momento difficile per il Paese. Un ruolo che impone di assumere decisioni consapevoli e coerenti, di stabilire con razionalità quali sono le vere priorità di un Paese che attraversa una grave crisi economica e sociale e cerca di uscirne; e soprattutto impone di mettere mano con estrema cura e col massimo rispetto ad un documento importante – anzi fondamentale – qual’è la Costituzione, che certamente può subire modifiche, ma nei tempi, nei modi e con i contenuti che rispondano alle reali esigenze del Paese e siano coerenti con i valori e le linee di fondo che essa esprime.