di Angela Pascucci
Gli Stati Uniti di Obama
Come dimostrato ampiamente dall’esposizione precedente, il convitato di pietra americano è presente in tutti i dossier che i vertici cinesi considerano di “interesse vitale” e li condiziona pesantemente. Un’analisi pubblicata da “Foreign Affairs” ha messo bene in rilievo come gli Usa sono “l’attore esterno più invadente negli affari interni cinesi, il garante dello status quo di Taiwan, la più grande presenza navale nei mari della Cina orientale e meridionale, l’alleato militare formale o informale di molti vicini della Cina e il primo artefice e difensore delle leggi internazionali.
Tale onnipresenza significa che la comprensione che la Cina ha dei motivi americani determina come i cinesi hanno a che fare con la maggior parte delle loro questioni di sicurezza”. [23] Comprensibile dunque l'”ossessione” americana che Xi Jinping ha ereditato dai suoi predecessori. Ma anche qui si assiste a un cambiamento di toni e di discorsi. Quelli imposti all’opinione pubblica mondiale da Xi in risposta al “pivot asiatico” annunciano la ricerca di una parità strategica sinoamericana in Asia orientale, tradotta al solito da uno slogan: la realizzazione di “un nuovo tipo di relazioni fra grandi potenze”, lanciato in grande stile dal vertice “in maniche di camicia” che nel giugno del 2013 in California ha visto un lungo faccia a faccia fra Xi e Obama.
Non ci sono precedenti nella storia di una relazione come quella fra Cina e Stati Uniti, fatta di interdipendenza e antagonismo ormai di pari forza. Costruire tale parità, afferma il leader cinese, “potrà servire d’esempio” per il futuro e potrà magari anche smentire la storia, che ha visto più guerre che intese quando una potenza declinava e un’altra avanzava. D’altra parte, come scrive Yan Xuetong nell’articolo citato sopra, “l’ascesa della Cina è forse l’evento più significativo per il mondo dagli albori dell’era moderna. Nessuno può prevederne le implicazioni nel lungo termine. Il rischio di un conflitto militare senza dubbio esiste. Ma, almeno per la prossima generazione, esistono opzioni strategiche sufficienti per la pace. E la visione di nuova politica estera di Xi, seppur apparentemente più assertiva, pone la Cina su un sentiero che contribuisce alla pace”. [24]
Al momento tuttavia il sospetto e la diffidenza prevalgono. Le nuove emergenze spingono oggi Xi ad aggiungere alle priorità tradizionali di politica estera (le relazioni con gli Stati Uniti e i problemi di sicurezza in Asia), anche altre questioni. Fra queste, la cybersicurezza, terreno di scontro sempre più scabroso con Washington, e il neointerventismo occidentale, che ha assunto nuovo slancio con la guerra in Libia e le primavere arabe. La Repubblica popolare, che ha una storia antichissima di rivolte interne fomentate dall’esterno e ha vissuto sulla propria pelle il brutale colonialismo occidentale, ha sempre visto con sospetto ogni rivoluzione “colorata” (inutile dire che, nella rivolta che ha infiammato l’Ucraina, Pechino si è schierata a fianco di Mosca, sia pure senza eccessivi entusiasmi).
L’accanita opposizione cinese al neointerventismo in voga può essere vista, secondo alcuni, come un prolungamento della “lotta contro la trasformazione pacifica”, concetto chiave dell’ideologia dei tempi delle riforme, secondo il quale il partito deve impedire a tutte le iniziative occidentali di approfittare dell’apertura economica per condurre azioni sovversive che potrebbero portare alla democratizzazione, alla destabilizzazione o alla secessione di certe regioni. [25]
Solo il tempo dirà che cosa intendano davvero i vertici cinesi con “un nuovo tipo di relazioni fra potenze” e come vogliano arrivarci. I loro atteggiamenti più recenti inducono tuttavia a pensare che la Cina cerchi dagli Usa il riconoscimento del suo nuovo status di potenza, che implica un ruolo egemone nell’area dove si concentrano i più sensibili dei suoi “interessi vitali”. La strategia del “pivot” è esattamente l’opposto. Un circolo vizioso di incomprensioni e diffidenze reciproche, alla lunga insostenibile. Quel che si profila all’orizzonte non è certo la distensione.
Al di là della retorica diplomatica, i fatti inducono a constatare che la massima forza cinese risiede oggi nella potenza economica, che chiede legami, distensione e stabilità e che solo a costo di pesanti rischi può essere usata come deterrente. Quanto al concetto più vasto di egemonia, e delle relazioni con il mondo attraverso le quali questa si esprime, esso richiede una capacità di “civilizzazione” sulla quale gli stessi cinesi oggi si interrogano e che di sicuro non può essere garantita dalle sole armi. [26]
In conclusione si torna al triangolo fatale, Cina, Usa e Giappone, e alla schizofrenia asiatica da esso generata. C’è chi rileva quanto ingombrante sia da sempre la presenza americana in Asia, attiva da oltre un secolo, e qualcuno ricorda gli sforzi della diplomazia americana alla fine dell’Ottocento per impedire che il trattato sinogiapponese del 1871 si trasformasse in un’alleanza dei paesi dell’Asia orientale contro l’Occidente, prospettiva vista come “una calamità” dai diplomatici americani che nel 1879 spingono il Giappone a impadronirsi del reame di Ryukyu (tributario dell’impero cinese e del quale le Diaoyu/Senkaku facevano parte) e trasformarlo in un suo dipartimento. [27]
L’impressione che l’oggi rimanda è che il divide et impera americano sia ancora all’opera e che gli Usa abbiano bisogno del conflitto sinogiapponese (ma senza che degeneri) per continuare ad affermarsi come i garanti della stabilità nell’area, così che i paesi più piccoli del sud est e dell’est asiatico a essi guardino per lenire le inquietudini suscitate dalle ingombranti potenze vicine. Ma l’analisi di cui sopra suggerisce che nel triangolo le dinamiche stiano cambiando e dunque anche i rapporti.
La storia più recente ricorda che il Partito democratico giapponese, quando riuscì a vincere le elezioni, si fece portatore di una visione di politica estera che cercava di emancipare il paese dal controllo Usa e di avvicinarlo di più all’Asia. Shinzo Abe può essere più rassicurante nella dichiarata fedeltà all’alleato, di cui ha ancora bisogno, ma negli sbocchi finali anche la sua è una strategia di emancipazione dalla tutela americana, verso un ruolo fortemente egemone nel continente.
In una prospettiva di dinamica planetaria, i sussulti asiatici fanno parte di un mondo che attraversa una fase cruciale, incerta e tesa, ben descritta da Ian Bremmer e Nouriel Roubini in un articolo dal significativo titolo A G-Zero World. La crisi mondiale, argomentano i due economisti, ha prodotto un vuoto di leadership globale e ha fatto a pezzi tutte le regole di coordinamento internazionale. Dal G20, l’ultima formazione chiamata in campo a salvare il mondo, si alza oggi “una cacofonia di voci in competizione”, quando invece sarebbe necessario mettere mano alle enormi questioni aperte dal dissesto, come la riforma del sistema finanziario, economico e valutario internazionale. Ma, asseriscono i due analisti, “è più probabile che questa era del G-Zero produca conflitti prolungati piuttosto che una nuova Bretton Woods”. [28]
I conflitti in fieri e quelli già esplosi estendono il fronte del sommovimento oltre la sfera economica che li ha generati e sospingono irreversibilmente il pianeta dentro una fase pericolosa in cui i legami vengono percepiti come restrizioni e l’ordine internazionale come un Risiko da condurre attraverso colpi di mano e strategie militari giocate sul filo dell’azzardo. Fase che, iniziata da tempo, ha già mostrato i suoi effetti devastanti senza che nella cosiddetta comunità internazionale sia apparso un lume di resipiscenza che la induca a innestare la marcia indietro o quanto meno a un ripensamento. In un simile scenario, peggio di un mondo G-Zero sarebbe solo un conflitto fra potenze che pretendono di dominare seguendo logiche e schemi che non reggono più.
NOTE
- [23] Andrew J. Nathan e Andrew Scobell, How China Seas America, “Foreign Affairs”, September-October 2012.
- [24] Yan Xuetong, China’s New Foreign Policy…, cit.
- [25] Mathieu Duchatel, La politique étrangère de la Chine sous Xi Jinping, in “Hérodote, regards geopolitique sur la Chine”, 3e trimestre 2013. Va ricordato che gli esiti della guerra in Libia hanno spento sul nascere la voglia di Pechino di contribuire all'”ordine” internazionale. La Cina aveva permesso l’intervento franco-inglese sostenuto dalla Nato astenendosi nella votazione sulla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu, che prevedeva una no fly zone per impedire a Gheddafi di usare l’Aviazione per bombardare il suo popolo. Alla fine però si è trovata di fronte a un cambiamento di regime in piena regola, del tutto contrario alla sua concezione di non intromissione negli affari interni di un altro paese. È l’esito di questa vicenda che spiega come, esplosa la crisi siriana, Pechino abbia fatto muro contro nuovi interventi armati dall’esterno.
- [26] Sull’argomento si veda l’interessante analisi proposta dall’Yearbook 2013 pubblicato dal sito The China Story edito dall’Australian Centre on China dell’Australian National University. All’ultima edizione dell’annuario, curata da Geremie R. Barmé e Jeremy Goldkorn, è stato dato appunto il titolo di Civilising China.
- [27] Philippe Pelletier, Le chien et l’elephant. Le Japon au miroir de la Chine, in “Hérodote”, cit.
- [28] Ian Bremmer, Nouriel Roubini, A G-Zero World, in “Foreign Affairs”, March-April 2011.
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GLI ARTICOLI PRECEDENTI
Questo testo è il capitolo “Il triangolo fatale delle Diaoyu/Senkaku. La Cina avanza, il Giappone declina, gli Usa riscoprono l’Asia… e la contesa sulle isole precipita” scritto dalla giornalista ed esperta di Asia Angela Pascucci per il libro Wars on demand – Guerre nel terzo millennio e lotte per la libertà. Il volume è stato curato Vicenza libera dalle servitù militari ed è stato pubblicato dalla casa editrice Agenzia X nella collana Global Books. Tutto il libro è rilascio con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate.