di Loris Campetti
Si chiamava Kemal, proprio come il padre della Turchia moderna, Ataturk. Aveva 15 anni, il suo corpo senza vita, nero di carbone, è stato portato fuori dalla miniera di Soma insieme a quello di altri 282 compagni di lavoro e di sventura. E sono più di cento i minatori ammazzati dalla Soma Coal Mining Company e dal governo di Recep Tayyip Erdogan che i soccorritori non sono ancora riusciti a riportare alla luce, una luce che non potranno mai più vedere.
Kemal è morto per asfissia. Poco più che bambino era stato gettato, senza contratto, in nero come il colore del carbone, nelle viscere della terra dal padrone della miniera che poco prima della strage, con orgoglio aveva dichiarato: dopo la privatizzazione il rendimento è esploso grazie all’abbattimento del costo del lavoro. Il partito islamista al governo aveva appena detto no alla richiesta dell’opposizione socialdemocratica di avviare un’inchiesta su quella maledetta miniera, nessun problema di sicurezza aveva detto Erdogan, e poi si sa che i minatori sono destinati a morire. Apprendiamo da un bel reportage di Marco Ansaldo su Repubblica che un deputato islamista aveva detto che “insh Allah”, nella miniera non sarebbe successo nulla di male, “nemmeno sangue dal naso”.
Eccola la Turchia moderna, che assomiglia alla moderna Cina dove le vittime delle miniere sono ancora oggi a migliaia, alcune ufficiali, altre clandestine perché sono in tanti i poveracci che vanno a scavare negli ultimi filoni di carbone in miniere chiuse dal governo. Nella nuova Romania, invece, i morti di miniera sono drasticamente diminuite dopo che il governo postcomunista, una quindicina d’anni fa, aveva licenziato 100.000 (centomila) “musi neri”, lo chiedeva l’Europa per aprire le porte dell’Unione, mentre la Nato aveva già allungato le sue mani nel paese uscito a pezzi dall’era Ceausescu.
L’8 agosto del 1956 a Marcinelle erano morti 262 minatori, in gran parte italiani. Nelle miniere belghe lavorava anche il fratello di mio padre, per sua fortuna in un turno diverso. Tutte le autorità giurano: mai più Marcinelle. Dopo 58 anni i minatori ammazzati a Soma, a un tiro di schioppo dal sito archeologico di Pergamo, sono venti in più mentre scriviamo, a fine conta saranno, probabilmente, addirittura 120 in più. Non sono vittime dell’arretratezza ma della modernità, una modernità fondata sul profitto che per abbattere i costi del lavoro abbatte i lavoratori.
Succede oggi con numeri spaventosi in Turchia, è successo solo l’altro ieri a Torino, non in una miniera ma in una fonderia del prestigioso gigante tedesco ThyssenKrupp. Sono morti allo stesso modo, bruciati dalle fiamme e asfissiati dal fumo. Per la stessa ragione: meno investimenti sulla sicurezza, meno diritti, più utili. Il moderno assomiglia all’antico: ricerche e tecnologie non vengono utilizzate per migliorare la vita dei lavoratori ma quella dei padroni. Certo le cose migliorano: oggi, per quel che se ne sa, solo un bambino è stato estratto dal carbone a Soma; il 12 novembre del 1881, nella miniera di Gessolungo in provincia di Caltanisetta, persero la vita 81 lavoratori e i ragazzini, i “carusi” erano addirittura 19.
Nella canzone “La zolfara”, testo di Michele L. Straniero, musicata da Fausto Amodei e cantata tra gli altri da Ornella Vanoni (“Sparala prima la mina/ più in fretta mezz’ora si guadagna/ me ne infischio del rischio/ se di sangue poi si bagna”) c’è un dio che “con la mano giustiziera/ con un fulmine di fuoco/ ha distrutto la miniera” dove erano morti i minatori di Gessolungo. Insieme alla miniera, forse, andrebbe incenerito chi fa i soldi o prende i voti sul sangue dei lavoratori.