A 50 anni del "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini tra rischio retorica e dibattiti datati

10 Maggio 2014 /

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di Michele Fumagallo
Ogni qual volta si fa un tuffo nel passato, si sente la mancanza struggente di una sinistra comunista e libertaria, capace di scavare e aprire orizzonti sempre nuovi, lontani dal conformismo insopportabile in cui è precipitata la nostra vita. Pensavo questo anche nel cinquantenario della prima (festival di Venezia, 1964) del film di Pier Paolo Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo”.
Mi è capitato, per una consuetudine che data da qualche anno, di avere un lungo colloquio con l’interprete del Nazareno pasoliniano Enrique Irazoqui (è poi andato, in piccolissima parte, come cappello a una pagina di Alias, l’inserto culturale de “Il manifesto”, di sabato 26 aprile 2014 che ha riprodotto, un po’ tagliata, una mia vecchia intervista di tre anni fa). In questo colloquio Enrique mette il dito sulla piaga di questo anniversario.

Per lui almeno due sono i motivi che rendono questa ricorrenza, annunciata e celebrata in moltissimi posti della penisola, retorica. Il primo è l’eccesso di attenzione verso i vertici della chiesa cattolica da parte di chi organizza (spesso i vescovi sono in prima fila tra gli invitati), col risultato, secondo Irazoqui, di deviare da ciò che era nelle intenzioni di chi concepì il film. Il secondo è la riduzione di Pasolini a santino, del tutto opposto al suo modo di essere.
Non ho nulla da dire su queste due osservazioni di Irazoqui che condivido. Ma in questo pezzo voglio parlare della mia visione di quel film con qualche aggiunta politico-culturale sul suo autore e sul clima di quell’epoca. Scusandomi della superficialità e brevità del tutto. “Il Vangelo secondo Matteo” è uno dei film migliori di Pasolini, grande intreccio tra immagini, azione, musica. Ne viene fuori una figura di Nazareno nuova, estranea ai cliché fino ad allora in auge nel cinema (ma anche dopo).
Qual era il cliché predominante nei film “normali” (non cito qui le belle provocazioni, tra cui, eccellente, “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese) sul Nazareno? Era quello del Cristo contemplativo che faceva capolino persino in film interessanti come “Il re dei re” di Nicholas Ray. Pasolini ha il merito di capovolgere tutto questo, con il suo Cristo tagliente, in continuo viaggio tra uomini dei campi e delle città, con i suoi discorsi che proclamano l’avvento dell’uomo nuovo.
Azione pura, amore puro, durezza pura, tra Bach e canzoni popolari. Aver puntato sull’Azione non è stata soltanto un’operazione stilistica della sua linea artistica, ma un’intuizione “politica” che liquidava quello che il Nazareno non è stato mai, appunto “Contemplazione”. Per questo i “contemplativi”, cioè i reazionari comunque camuffati (anche di sinistra quindi), restarono di stucco anche se in fondo si trattava soltanto di un film. Fu un’operazione coinvolgente che commosse molti e adirò tanti, com’è del resto normale nella rivisitazione di una storia così particolare. Pasolini, tra l’altro, raggiunse l’acme dell’uso della musica in funzione di midollo spinale della storia: una delle sue grandi originalità nel cinema e non solo.
Ecco, vorrei che in questo cinquantenario si parlasse di cinema e del modo pasoliniano di intenderlo. Invece si glissa, si manipola, si “dolcifica”, insomma si parla d’altro. Non che non ci sia anche da parlare d’altro, sia chiaro. Per esempio, c’è tutta una parte, già raccontata ma non ancora sistematizzata “per intero”, sul coinvolgimento dei luoghi dove Pasolini girava. Matera, centro di quelle riprese, ha fatto testo: il suo rapporto con quella città (la parte antica dei Sassi, naturalmente) e quelle persone è addirittura una storia a sé, ancora non dimenticata dopo 50 anni. I dibattiti serali dopo le riprese – compreso quello epocale sullo sgombero totale della città antica, considerato un progresso da molti ma un delitto da Pasolini -, sono ancora lì ad emozionare chi vi partecipò.
Sulla questione extra cinematografica (per quel poco che è possibile prescinderne quando si parla di un artista) Pasolini, ecco l’errore di questi anniversari, non ha bisogno di santificazioni, semmai di critiche. Il suo valore artistico (e anche politico) è sotto gli occhi di tutti. Ciò che manca – lasciamo stare gli atteggiamenti distruttivi e infantilmente liquidatori che sono semplicemente l’altra faccia della santificazione -, è una visione corretta delle sue opere che si concentri sul loro valore e sulle cose che non vanno oppure hanno semplicemente fatto il loro tempo.
Per esempio una cosa che ha fatto il suo tempo, parliamo sempre di questioni extra artistiche, è il “dialogo cattolici-marxisti” in cui Pasolini si trovò, del resto con suo grande entusiasmo (la polemica era un invito a nozze per lui), invischiato. Ancorché avanzato e decisamente interessante allora, è un dibattito che, riletto oggi, è pieno di strumentalità da entrambe le parti. E non solo perché il marxismo non è una religione e quindi non va contrapposto al cristianesimo (neanche in termini di “dialogo”), ma perché codificava di fatto il discorso evangelico regalandolo alle chiese, sia pure spesso alle sue ali di sinistra.
Come si vede, tra celebrazioni fuorvianti e dialoghi datati, urge, per la chiarezza e la complessità, anche nel campo degli anniversari – se si vuole che abbiano un senso per il futuro e aprano discussioni nuove -, una rinascita di una sinistra di classe, moderna e “non cattolica” (almeno in Italia). Anzi, pasolinianamente “luterana”.

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