Il "culturame": da Mario Scelba a Matteo Renzi

22 Aprile 2014 /

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Mario Scelba
Mario Scelba
di Marco Ligas
È stato Mario Scelba nel lontano 1949 ad usare per primo il termine culturame. Motivò questa espressione sostenendo che la Dc non avrebbe potuto vincere le elezioni del 18 aprile se “non avesse avuto in sé una forza morale, un’idea motrice, che vale molto di più di tutto il culturame di certuni” (Congresso di Venezia della Democrazia cristiana, 1949).
Non è difficile capire come per Scelba i certuni fossero coloro, in particolare gli intellettuali, che si opponevano in un modo o nell’altro all’arroganza del potere. Quella espressione greve fu criticata da più parti, anche all’interno del suo partito. Il critico letterario Luigi Russo, suo corregionale, dichiarò che nelle parole di Scelba si coglieva la stessa violenza che caratterizzava i comportamenti dei campieri siciliani, guardie campestri che avevano il compito di tutelare gli interessi dei proprietari terrieri attraverso un controllo serrato, che non escludeva le punizioni corporali, del lavoro dei contadini e dei braccianti.

Scelba cercò di rettificare il suo giudizio ma la finezza non era certo una sua prerogativa. Così, nel tentativo di attenuarne la volgarità, finì per confermare il concetto espresso precedentemente precisando che con il termine “culturame” intendeva riferirsi a coloro i quali, “per soddisfare la loro vanità o ambizione politica, mentre noi combattevamo la battaglia anticomunista del 18 aprile, che era fatta appunto in nome della cultura e della libertà, si schieravano dall’altra parte in alleanze ambigue con i negatori della cultura e della libertà” (Intervista al Giornale d’Italia, 1949).
Non mi sembra fuori luogo oggi ricordare ai più giovani che dal 18 aprile del 1948 sino agli anni “50 le politiche relative all’ordine pubblico condotte da Mario Scelba e dai governi democristiani si caratterizzarono per l’impiego violento della polizia nelle vertenze sindacali. Ogni iniziativa dei lavoratori veniva considerata una cospirazione comunista, e perciò la polizia (la famosa celere) interveniva per tutelare l’ordine pubblico: così sparava senza esitazioni contro i braccianti e gli operai che rivendicavano migliori condizioni di vita. È per queste ragioni che lo scelbismo spesso veniva considerato alla stessa stregua di una guerriglia. E il culturame, a detta di quelle classi dirigenti, ne era naturalmente una causa.
È corretto fare delle analogie tra lo scelbismo e la politica odierna, soprattutto con i progetti che intende realizzare Matteo Renzi? Naturalmente i tempi sono cambiati e i conflitti sociali non si presentano più come nei decenni precedenti. Non abbiamo più una polizia che spara e uccide i dimostranti (anche se permangono episodi per fortuna limitati di violenza che talvolta si concludono in modo drammatico), il pericolo comunista viene escluso più o meno da tutti e nello stesso tempo fra le coalizioni politiche che sono sempre più omogenee tra loro sembra prevalere la scelta delle larghe intese.
Eppure, nonostante questi cambiamenti radicali, mi sembrano innegabili alcuni elementi di continuità e persino qualche regressione rispetto al passato, soprattutto per quanto riguarda la tutela delle istituzioni democratiche. Colpisce innanzitutto, ecco una forte analogia con il metodo di Scelba, il considerare le osservazioni di Rodotà o di Zagrebelski come scelte conservatrici fatte da un “manipolo di studiosi” o dai soliti “professoroni” che vorrebbero tutelare le regole ormai obsolete della nostra Costituzione. Ricompaiono così con termini diversi i concetti antichi (il culturame di certuni) tanto cari al vecchio dirigente democristiano. Si cancella il Senato e si trasforma la Camera in un sistema maggioritario dove vengono a mancare le garanzie delle minoranze e saltano i contrappesi indispensabili per il mantenimento della democrazia.
Tutto ciò viene giustificato attraverso un’affermazione fantasiosa e presuntuosa secondo cui il Premier e il suo governo, avendo giurato sulla Costituzione e non sulla fedeltà a Rodotà o Zagrebelski, diventano automaticamente i depositari della verità. Peccato che la Carta di cui parla Renzi non esista se non nella sua immaginazione: la Costituzione, quella autentica, non consente queste manipolazioni. Neanche la legge truffa arrivò a tanto. Un altro aspetto inquietante del decisionismo di Renzi è il ricatto: o si fanno le riforme così come ho deciso (meglio, come abbiamo deciso io e Berlusconi), oppure vado via; e badate, aggiunge, in questo caso la crisi si aggraverà perché non sarà possibile il rispetto degli accordi con l’Ue. Sembra un altro uomo della provvidenza, ma ahimè sappiamo bene quanto siano dannosi questi personaggi e come dietro tanta arroganza si nasconda solo insicurezza.
Voglio soffermarmi ancora su un aspetto che merita la massima attenzione qualunque sarà il futuro del governo Renzi. Riguarda la nostra libertà di voto, a tutti i livelli. Su scala nazionale si parla attualmente dell’Italicum, e già sappiamo quanto è peggio del Porcellum. Eppure quando ci si presenta come antesignani del cambiamento non si dovrebbero eludere le osservazioni della Consulta ratificando leggi che riducono ulteriormente il potere dei cittadini di esprimersi.
A Renzi non interessano questi aspetti, tira dritto per la sua strada non curante che il nostro Parlamento, già poco rappresentativo della volontà degli elettori (non dimentichiamo che cresce progressivamente il numero di coloro che non vanno più a votare), rischia di diventare un’istituzione insignificante, marginale, schiacciata da un potere esecutivo sempre più autoritario. Anche nella nostra isola stiamo subendo l’arroganza dei partiti maggiori. Nelle ultime elezioni regionali abbiamo votato con una legge che garantisce alla coalizione vincente una maggioranza del 55% dei consiglieri regionali. Questa norma scandalosa è valida anche se la prima coalizione supera solo il 25% dei voti.
Ma c’è di più: è stata introdotta una soglia di sbarramento del 10% a danno delle formazioni non alleate con le due coalizioni più votate: in questo modo anche chi raggiunge una percentuale rilevante di voti, vicina al 10% ma al di sotto, resterà fuori dal Consiglio. Grazie a questa legge persino le rappresentanze territoriali e di genere non vengono rispettate, ma nessuno prende in considerazione e contrasta queste gravi anomalie. Questi processi che denotano la crisi profonda che vive la nostra democrazia impongono un impegno nuovo a tutti. Non possiamo limitarci a fare gli osservatori lamentosi quando attorno a noi vengono demoliti gli istituti della democrazia.
Ciascuno, nel posto che occupa nella società, deve difenderla questa democrazia, con determinazione perché possa conservare la possibilità di esprimersi e di partecipare liberamente alle attività politiche. È per queste ragioni che proprio in questi giorni presentiamo insieme ai compagni di Democrazia Oggi e di altre Associazioni un ricorso al Tar perché riteniamo incostituzionale questa legge regionale. Siamo convinti che il risultato elettorale mostri una manifesta limitazione della libertà del voto a causa delle infondate preclusioni che sono state imposte.
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto Sardo l’8 aprile 2014

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