Vittorio Arrigoni / 2: restare ancora umani

15 Aprile 2014 /

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di Paolo Morandi
La Palestina è arrivata fino a me durante l’Operazione Piombo Fuso. Ventidue giorni di bombardamento con più di milleduecento civili della Striscia di Gaza uccisi delle forze armate israeliane. Era la fine del 2008, il 27 dicembre, e qui in Italia si pensava più al cenone di capodanno che ad altro. Vittorio invece era lì, a Gaza, insieme a un gruppetto di internazionali, gli unici non palestinesi a raccontarci cosa stava succedendo.
Scriveva articoli su il manifesto e sul suo blog, guerrillaradio, ma non era un giorrnalista: era un attivista dell’International Solidarity Movement, accompagnava i contadini gazawi nei loro campi mentre i soldati israeliani sparavano loro addosso, saliva sulle barche dei pescatori mentre la marina di Tel Aviv le assaltava per non farle allontanare dalla costa.
“I Palestinesi meritano una punizione da vivi, nel tentativo di sopravvivere… ma anche da morti”, disse Vittorio nel corso incontro presso il centro sociale Vag 61, nel novembre del 2009, mentre raccontava dell’omicidio di un ragazzino di quindici anni e del tentativo, da parte dei familiari insieme ad alcuni compagni e compagne dell’ISM, di recuperarne il cadavere. Il ragazzo era stato ucciso da cecchini israeliani nella buffer-zone della Striscia di Gaza, dove era rimasto per più di cinquanta giorni senza vita, a causa dell’esercito che sparava a chi volesse avvicinarsi.

Io Vittorio non l’ho mai conosciuto. Però, da quel dicembre 2008, ho continuato a leggerlo e a leggere di Palestina, dove i morti, gli arresti, le demolizioni di case, le violenze di ogni tipo sono cronaca quotidiana. Ho continuato a seguire Vittorio fino a quando fu ucciso, tre anni fa. Allora decisi che, in Palestina, era ora di andarci.
Dall’ultima volta che sono tornato in quella terra è passato ormai un anno e mezzo. Ero a Nablus, in Cisgiordania, proprio con l’International Solidarity Movement, che porta ancora avanti la sua solidarietà attiva in sostegno al popolo palestinese. In quel periodo, erano ricominciati i bombardamenti su Gaza. Ricordo che c’era una lavagnetta appesa al muro dell’appartamento dove vivevo con i compagni e le compagne dell’ISM, e lì sopra scrivevamo i morti ammazzati dall’esercito israeliano. Dovevamo aggiornare il conteggio spesso, troppo spesso, ed era terribile vedere quel numero che saliva ogni ora, ogni minuto. Alla fine furono più di centosettanta le persone uccise a Gaza, mentre tutta la Cisgiordania prendeva fuoco e le manifestazioni si ripetevano tutti i giorni, con scontri, lacrimogeni, proiettili, arresti, e altri morti.
Mentre ero lì, ogni tanto pensavo a Vittorio. Durante le manifestazioni represse nel sangue o quando i coloni incendiavano i campi di ulivi nei villaggi intorno a Nablus, oltrepassando gli infiniti checkpoint dove tanti e tante Palestinesi venivano fermati senza motivo o davanti al muro dell’Apartheid, o ancora camminando per Hebron in un centro storico pieno di filo spinato e strade murate, ogni tanto il mio pensiero correva a lui. Vittorio chiudeva tutti i suoi articoli con il mantra “Restiamo Umani”.
Ma in quelle situazioni, questa frase è difficile, forse impossibile da digerire, ha un sapore amaro, terribile per la sua dolcezza che tanto stona con la realtà circostante. Cosa resta di umano, lì, in una terra lacerata da un’occupazione che dura dal 1948? Cosa resta di umano quando, qualche giorno fa, un soldato dell’esercito sionista spara e uccide Yusef Abu Aker Shawamreh, nato il 15 dicembre 1999, mentre raccoglie dei cardi selvatici nei pressi del muro dell’Apartheid? Cosa resta di umano quando Gaza resta la stessa enorme prigione a cielo aperto di cui ci raccontavi, e in Cisgiordania continua la guerra a bassa intensità e ad altissimo numero di morti?
Alberto Arce, regista del documentario “To shoot an elephant”, amico di Vittorio, era insieme a lui durante i giorni terribili di Piombo Fuso. Credo che la sua testimonianza possa spiegarci molto su Vittorio e sul senso delle sue parole e pratiche di resistenza.
“Ciò che Vittorio voleva dirci con “Restiamo Umani” era che tutti siamo abituati a vedere in televisione o al cinema, o a leggere nei giornali, siamo abituati a ricevere notizie di massacri. Nel mondo ci sono massacri tutti i giorni. Da tre anni stanno bombardando Gaza, stanno bombardando Aleppo, sempre ci sarà un massacro, un bombardamento massiccio di civili. E tutti siamo diventati immunizzati davanti a questo, siamo diventati disumani davanti al dolore degli altri. Quello che Vittorio voleva trasmettere era che il dolore degli altri è anche nostro, e dobbiamo sentirlo come nostro. Ci deve colpire, ci deve dar fastidio, ci deve spingere ad agire, perché è l’unica maniera per restare umani”.
“Vittorio era un rivoluzionario, nel senso positivo del termine… Rivoluzione che deve essere tenuta viva, se ci riferiamo al lavoro di Vittorio Arrigoni”.

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