di Riccardo Terzi
Sul congresso della Cgil si addensano molteplici e complessi interrogativi, di difficile soluzione, e sarebbe del tutto illusorio sperare in una loro definitiva chiarificazione. Il congresso non può che essere un momento di passaggio, di assestamento provvisorio, e non si vedono all’orizzonte decisioni strategiche che siano davvero innovative.
Ma ciò non significa affatto che sia solo un congresso di routine, perché è assai importante capire se si vuole aprire una riflessione critica, a tutto campo, o se all’inverso ci si chiude in una logica di autoconservazione. Tutto dipende, quindi, dalla soggettività e dall’intenzionalità dei gruppi dirigenti, ai vari livelli, e l’esito non è affatto scontato. Può essere l’avvio di un nuovo cammino di ricerca, o può essere solo il rituale di una vuota autocelebrazione. Non so dire, allo stato attuale, quale sarà l’impronta conclusiva, e comunque non mi pare affatto scongiurato il pericolo di un arroccamento burocratico.
Il fatto positivo è che nel corpo vivo dell’organizzazione, a giudicare almeno dai numerosi congressi territoriali dello Spi a cui ho partecipato, c’è una forte tensione politica e una domanda di chiarezza strategica, senza che la discussione collettiva venga imbrigliata secondo vecchie logiche di schieramento. Le domande ci sono tutte, anche quelle più scomode e impegnative, e le risposte sono affidate ad una libera discussione democratica.
Ed è assai forte la preoccupazione per la tenuta unitaria della Cgil, con un richiamo alla responsabilità collettiva del gruppo dirigente. Vale ancora l’impegno per un congresso unitario, o il meccanismo si è ormai inceppato, e il congresso è solo una resa dei conti tra la Cgil e la Fiom? In sostanza, quello che stiamo facendo è un congresso, o è una dichiarazione di fede al gruppo dirigente? Il tema dell’unità, che viene cosi posto, come una condizione preliminare per affrontare le nuove sfide, non è affatto, nella coscienza del nostro quadro attivo, un argomento solo retorico e astratto, e non è affidato, come spesso è accaduto nel passato, alla disciplina centralizzatrice, ma piuttosto alla capacità di riconoscere le differenze e di farle agire dentro una comune cornice strategica, tenendo sempre aperto il confronto democratico in una organizzazione che è necessariamente plurale nel suo stesso fondamento.
Questa è la sfida del congresso: portare l’unità ad un livello più alto, il che comporta anche uno sviluppo nuovo della democrazia interna, una più aperta circolazione delle idee e dei progetti. Ma accade spesso di essere deviati da più contingenti considerazioni, individuali o di gruppo, e di restare cosi invischiati nell’infinito gioco degli equilibri e delle convenienze burocratiche. Non so dire, in tutta franchezza, quale sarà alla fine la scelta del gruppo dirigente, quale la sua capacità di sintesi e la sua forza di pensiero. Lasciando irrisolto il dubbio, mi sembra che sia del tutto aperto e non più rinviabile il problema del nostro modello organizzativo, perché sta proprio qui, nella rigidità del modello, nella sua struttura centralizzata e gerarchica, una delle principali cause dello spiazzamento del sindacato rispetto ai nuovi processi sociali e politici. Mentre la società è sempre più differenziata e articolata, la nostra struttura continua ad essere modellata secondo una logica verticale, per cui il processo decisionale si svolge solo dall’alto verso il basso, senza riuscire cosi a cogliere gli spazi di autonomia che si possono aprire nei singoli contesti territoriali.
Qui è in gioco tutto il problema dell’efficacia, il quale costituisce il vero punto critico su cui concentrare la nostra riflessione, essendo del tutto evidente lo scarto drammatico che si è aperto tra gli obiettivi e i risultati. Da cosa dipende questo scarto, e come si può invertire la rotta? È questo il cuore della discussione politica e strategica. L’immagine che il sindacato trasmette è quella di una macchina organizzativa ripiegata su se stessa, che non riesce più ad incidere nei processi reali, e che si avvia verso un destino di crescente marginalità, stretta nella morsa tra il decisionismo della politica e una protesta sociale che non si lascia più incanalare negli strumenti tradizionali della rappresentanza. Ciò che è in discussione è allora il problema della forza, essendo questo il nucleo sostanziale di una strategia, in quanto capacità di spostare i concreti equilibri di potere e di affermare una diversa egemonia.
La forza non la misuriamo al nostro interno, ma nel nostro rapporto con tutto ciò che sta fuori dai nostri confini. Questa è la confederalità: non una prerogativa burocratica che è riservata al gruppo dirigente centrale, ma la capacità di tutto il corpo dell’organizzazione, in ciascuna delle sue articolazioni, di avere uno sguardo aperto sul mondo che sta fuori di noi. A partire dalla sua parzialità, il sindacato può trasmettere un messaggio generale, universale, oltrepassando ogni forma di ristrettezza corporativa. E oggi più che mai, nel mezzo di una tumultuosa trasformazione, abbiamo bisogno di una visione allargata, per cogliere il processo sociale in tutta la sua complessità, per farne emergere le potenzialità, per rappresentare le nuove domande e le nuove soggettività, con un lavoro di scavo nella profondità delle contraddizioni sociali. In questo lavoro, non è di nessun aiuto lo schema ricorrente che contrappone il politico e l’impolitico, perché l’inquietudine sociale può prendere le strade più diverse, anche le meno limpide e razionali, e il compito del sindacato non è quello di erigere barriere, ma di aprire un più largo canale di comunicazione. Il nostro linguaggio non può essere quello dell’ufficialità istituzionale, ma quello della prossimità concreta con la realtà sociale che intendiamo rappresentare.
Il processo di rinnovamento di cui il sindacato ha bisogno ha anche il senso di un ritorno alle radici, di una riattualizzazione della sua originaria vocazione sociale, per dare una coscienza unitaria ad un mondo del lavoro sempre più frammentato. Ma ciò significa imboccare una strada che entra in collisione con i rituali della politica. È tutto il rapporto con la politica che deve essere ridefinito, affermando con assoluta radicalità l’autonomia del soggetto sociale, il suo essere “altro” rispetto alla dimensione istituzionale. Il rapporto con la politica è un rapporto di tensione e di sfida, sempre e comunque, senza che siano possibili “sponde politiche” a cui ancorare l’azione della rappresentanza sociale.
D’altra parte è la politica stessa che si è trasformata, e forse possiamo domandarci se lo spazio politico non si sia del tutto dissolto e se sia possibile utilizzare ancora le parole della politica per rappresentare l’attuale situazione. Siamo alla fine di un ciclo, politico e ideologico, e tutte le tradizionali categorie del politico hanno subito un processo di radicale destrutturazione. Ciò che sopravvive è solo il nucleo duro della competizione per il potere, dove tutte le identità sono svuotate, e si tratta solo della governabilità, della manutenzione tecnica del sistema. È una mutazione in profondità dell’intero universo ideologico e simbolico in cui ci troviamo ad agire, e all’interno di questo nuovo spazio, cosi ridisegnato e scarnificato, non c’è nessun riconoscimento dei soggetti sociali, se non in una loro versione del tutto subalterna e corporativa.
Ecco perché si apre, necessariamente, un conflitto, il quale non si riferisce solo agli interessi economici, ma all’idea stessa di democrazia, con la contrapposizione che si determina tra il modello decisionista e quello partecipativo, tra le ragioni del potere e quelle della rappresentanza.
Il sindacato può reggere questa sfida se diviene l’animatore e il costruttore di un processo democratico allargato, se riesce a promuovere una rete plurale di forze, di soggetti, di culture, in un lavoro comune che ha al centro l’eguaglianza dei diritti sociali e civili. Non siamo affatto destinati all’isolamento e all’impotenza, perché c’è tutto un vasto territorio sociale che può essere dissodato, e c’è una rete democratica che può essere rivitalizzata e che può agire da contrappeso alle tendenze centralizzatrici e tecnocratiche della politica. Questo è il punto centrale: come ci posizioniamo nel nuovo scenario, con quale idea del nostro ruolo e con quale attrezzatura culturale. Dobbiamo vivere questa fase non con il senso disperato della sconfitta, con una linea solo resistenziale, come i reduci di un tempo ormai tramontato, ma prendendo del tutto sul serio la sfida del cambiamento, a cominciare da noi stessi e dal nostro modo di essere e di agire.
Partiamo dalla domanda in apparenza più semplice: in che cosa deve consistere oggi il lavoro del sindacalista? La mia risposta è che c’è bisogno di una nuova generazione di “sperimentatori sociali”, che stanno nel vivo dei processi di trasformazione, e che a questi processi rispondono non solo con la denuncia, ma con la costruzione di nuove possibili soluzioni, in un rapporto diretto e trasparente con le persone rappresentate e con la loro vita vissuta. Tutto ciò richiede un deciso cambio di passo nel funzionamento del sindacato e nella selezione dei suoi gruppi dirigenti.
Richiede un modello organizzativo aperto alla sperimentazione, all’autonomia, ad una pratica sindacale radicata nel territorio, e soprattutto è tutto il baricentro della struttura che deve essere spostato verso il basso, valorizzando il lavoro di frontiera, là dove si realizza una relazione diretta tra il rappresentante e il rappresentato, rovesciando cosi la piramide gerarchica e i meccanismi burocratici della cooptazione, fondati sull’obbedienza e non sulla creatività, sulla stabilità e non sull’innovazione. Non è il momento in cui può essere sufficiente una ordinaria manutenzione della macchina organizzativa, con i suoi riti collaudati, perché sta proprio qui, nella forza d’inerzia dell’organizzazione, l’insidia più grave da cui possiamo essere travolti.
Il primo passo indispensabile da fare è questo esame critico su noi stessi, per intervenire su tutto ciò che dipende da noi, ed evitando di scaricare tutte le responsabilità solo sul nemico esterno. Se non si compie questo primo passo, tutto finirà per essere impantanato in una sterile continuità burocratica. Il congresso saprà aprire almeno un varco in questa direzione, saprà essere il luogo di una riflessione aperta che guarda al futuro? È su questo metro che saremo tutti giudicati, e nessun errore ci sarà perdonato, nessuna falsa prudenza, nessun attendismo, perché è ora che dobbiamo reggere l’urto, con rinnovate energie, di un’ondata politica che punta a mettere definitivamente fuori gioco la forza e il ruolo del sindacalismo confederale.
Non sarà sufficiente, per un lavoro di riprogettazione che vada davvero al fondo delle questioni, l’esercizio ordinario della nostra democrazia interna, perché la democrazia, se è lasciata a se stessa e al suo ritmo spontaneo, produce un effetto di conservazione, di continuità, in quanto è un rispecchiamento dell’esistente.
Come se ne esce? C’è stata, nella nostra storia passata, la teorizzazione del ruolo delle “avanguardie”, a cui spettava una funzione di guida e di mobilitazione, cosi da vincere la passività spontanea delle grandi masse. In realtà, in questa teoria si annidavano anche molte possibili degenerazioni, autoritarie o volontaristiche. Ma resta comunque la necessità di combinare i due momenti dell’iniziativa dal basso e della progettazione politica dall’alto, perché solo cosi , con una dialettica vivente tra spontaneità e direzione, un grande corpo organizzato vive di vita propria e mette in movimento tutte le sue potenzialità. È quindi necessario avviare, insieme, due processi: la democratizzazione più coerente possibile di tutti i processi decisionali, e la ricostruzione di una funzione dirigente che sia in grado di dare a tutto il processo di rinnovamento l’energia necessaria e una chiara consapevolezza degli obiettivi da raggiungere. È su questi due fronti che dobbiamo lavorare, tenendoli insieme, perché sono i due lati dello stesso problema, le due condizioni tra loro intrecciate per un rilancio dell’azione sociale del sindacato.
Questo articolo è stato ripreso da Inchiesta Online il 3 aprile 2014 dopo che è stato pubblicato su Alternative per il socialismo