Minatori e cassintegrati del Sulcis

4 Aprile 2014 /

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Lavorare manca
Lavorare manca
di Gabriele Polo e Giovanna Boursier
Pubblichiamo un capitolo del libro Lavorare manca scritto da Gabriele Polo e da Giovanna Boursier. Questa sezione riguarda l’esperienza lavorativa dei minatori e cassintegrati del Sulcis. Il libro, editore Einaudi, è nelle librerie da questi giorni.
Regno Minerale. Dalle colline al mare sono pochi chilometri, in linea d’aria un “tiro di schioppo” tra i castelli dei pozzi e i silos che quasi si guardano l’un l’altro. In silenzio. Nel mezzo ruotano decine d’enormi pale eoliche, le uniche cui è concesso muoversi dove tutto s’è fermato. Privilegio proprio degli ultimi arrivati, corpi estranei che sono stati piantati lì ma potrebbero essere ovunque: del tutto indifferenti a ciò che li circonda, rendono piccolo quel che un tempo sembrava enorme, le ruote gialle d’acciaio là in alto, i capannoni grigi uniti da grossi tubi bianchi giù in basso; come capita a cattedrali di religioni passate.
Da Nuraxi Figus a Portovesme il passo è breve anche nel tempo, anche per quello futuro. L’ultima miniera di carbone osserva le fabbriche dei metalli col timore di una madre che rivede nelle figlie il proprio destino piantato nella storia di un monolite cui tutti si stringono e tutti sempre ritornano. Piante, animali, persone. Dove coltivazione vuol dire carbone, piombo, zinco o argento, non grano, mais, patate o uva, il vento soffia forte e ci si aggrappa alla pietra per non essere portati via da chi arriva, si ruba qualcosa e se ne và. La Sardegna appartiene al regno minerale e di esso ha sempre vissuto; è così fin dalla notte dei tempi, dal Paleozoico, con l’emergere della “prima terra baciata dal sole”, la Maurreddìa, il suo cuore più antico, il Sulcis.

O, almeno, è così da 8.000 anni, dalle duecento officine neolotiche di ossidiana che da qui hanno riempito di frecce il nord Africa e la Foresta nera; dalle steatiti che diventavano ceramiche; dalle cave di stagno e rame che i primi operai metallurgici fondono nel bronzo, il metallo della civiltà nuragica. Anche da quando hanno iniziato ad arrivare gli stranieri, fenici per commerciare, cartaginesi e romani per dominare. E il minerale si è trasformato da risorsa a prigione, il minatore da attività a lavoro, gli abitanti da uomini a schiavi. Concentrati nelle prime vere miniere, a Metalla, sulla strada da Iglesias a Fluminimaggiori, dove c’è la galleria Su Presoni, nome che dice tutto. Deve essere nata allora la storia della vocazione e anche quella dell’inadeguatezza: vocazione del territorio da sfruttare ricavandone metalli per guerre e paci, inadeguatezza di un popolo che molti anni dopo sarà considerato poco adatto a quel lavoro. Quando nascerà l’industria estrattiva, per nutrire e far crescere l’era della borghesia. Ma non lì, sul continente.
Non che prima fosse molto diverso. Caduta Roma i sardi si “godono” in povertà qualche secolo di semi-libertà, tra Vandali, Bizantini, evangelizzazione cristiana e incursioni arabe: le pietre vengono lasciate in pace. Ma dopo l’anno Mille genovesi e pisani iniziano a spartirsi l’influenza sui “giudicati” in cui è divisa l’isola e a rioccuparsi di miniere. Soprattutto d’argento. Che fa brillare gli occhi al conte Ugolino al punto da fondare Villa di Chiesa, cioè Iglesias, qualche anno prima d’essere vittima delle lotte tra guelfi e ghibellini, prigioniero dell’arcivescovo Ruggirei e morire di fame per poi finire nell’inferno dantesco a mangiare il cranio del suo aguzzino. Le miniere si chiamano Fosse e i pozzi Bottini, nomi giusti per descrivere l’ambiente di lavoro e i destinatari del suo profitto.
Che cessa con la dominazione degli spagnoli, vista l’insostenibile concorrenza dell’oro delle fresche colonie americane, e riprende con l’arrivo dei piemontesi. Quando inizia l’era dello sfruttamento industriale dei minerali, a partire da una semplice norma che considera demanio il suolo ma non il sottosuolo, sfruttabile quindi da chiunque ne abbia voglia e possibilità – un po’ come per le acque minerali di oggi – con una semplice e semi-gratuita concessione dello stato. Cioè del Regno di Sardegna, raro esempio di nazione che contraddice il detto per cui “nomina sunt omina”. Perché la capitale è a Torino, come il capitale e da lì arrivano indirizzi pubblici e azionisti privati. Che trasformano per sempre la geografia del Sulcis e la vita dei suoi abitanti.
Dalla metà dell’800, dovunque e crescendo esponenzialmente si aprono scavi per cercare le “vene” da cui ricavare piombo, zinco, argento e rame, soprattutto i primi due, per la rivoluzione industriale del paese e del mondo. Quando gli scavi trovano il filone buono nasce la miniera e si scava, dalla superficie in giù, sempre più in giù: si mandano dentro uomini e si tira fuori materia prima, scavata da quei sardi “riottosi e troppo minuti per l’impresa” ma unica forza lavoro a disposizione “in buona quantità”. Vengono rieducati, addestrati, qualcuno finisce persino a Cogne, nelle miniere di ferro a 2000 metri sul mare, a maledire il re, morir di freddo e nostalgia. Ma da istruiti alla “cultura della mina”.
La scuola più importante la fonda a Iglesias il biellese Quintino Sella, ingegnere idraulico e padre del Cai, oltre che unico ministro delle finanze ad aver ripianato il debito pubblico ottenendo il pareggio di bilancio dell’Italia unita. Redige un fondamentale rapporto sullo stato delle miniere con tanto di regole e istruzioni per l’uso nel decennio ’60, quando la produzione passa da 10.000 a 127.000 tonnellate di materiale estratto e i lavoratori da 3.000 a oltre 9.000. Il via su scala industriale lo hanno dato le miniere metallurgiche attorno al 1850, prima quella di Montevecchio e poi quella di Monteponi, appena fuori Iglesias, con omonima società a capitale genovese-torinese, presieduta dal conte di San Martino, di Rivalba e di Buttigliera, senatore del regno Carlo Vaudi di Vesme, intimo di casa Savoia e al cui onore viene dedicato il porticciolo dove il materiale estratto arriva con una ferrovia privata e da dove parte per l’isola di san Pietro, scalo obbligato per le navi di grande pescaggio che da lì lo portano nelle fabbriche del continente.
Portovesme – dove tutto è Monteponi, ferrovia, porto e, in seguito, centrale elettrica – è solo la più nota tra le tante creature dell’escalation mineraria: nascono oltre 200 siti su un’area di 2.000 chilometri quadrati, ogni collina ha il suo pozzo e le sue vasche di lavaggio, le fonderie e le officine di lavorazione del materiale accanto a cui sorgono villaggi per soli minatori con i loro spacci e magazzini, vengono costruite reti ferroviarie e scali marini dedicati esclusivamente al trasporto dei minerali, sulle pendici di roccia dolomia a picco sul mare spuntano fori da cui escono carrelli pieni di minerale che riempiono direttamente i piroscafi, gallerie lunghe chilometri portano a mare l’acqua pompata dalle falde per poter seguire le “vene” sempre più in profondità, multinazionali francesi, inglesi, belghe e tedesche, dalla Pertusola alla Gonnesa Mine, gestiscono la vita e la morte delle comunità che creano.
Nella seconda metà dell’800 si inizia a estrarre anche il carbone, la cui fame cresce rapidamente con l’industria, l’energia elettrica, le guerre e nel ‘900 diventa il comparto estrattivo più importante. Tra picchi e crisi di mercato, con lo stato fascista che si fa imprenditore e Mussolini col piccone in mano, sul giacimento più importante scoperto negli anni ’30 nasce Carbonia, concentrazione urbana per 50.000 ribelli, banditi e poveracci indirizzati allo scavo del materiale che manda avanti buona parte dell’industria e del naviglio di stato. La crescita continua fino agli anni ’50, quando il Sulcis è la seconda concentrazione operaia d’Italia, dopo la Fiat di Torino: 30.000 lavoratori, per due terzi estraggono carbone, gli altri zinco e piombo che con la guerra di Corea raggiunge l’apice di richieste e prezzo. Poi inizia un veloce declino.
Dagli anni ’60 le multinazionali metallurgiche vanno dove le porta il portafoglio sulla strada del risparmio, prima in Africa e Sud America e poi in Antartide; per il carbone ormai bisogna scavare sempre più in profondità, il suo potere calorico non è il massimo e per i privati non è più un affare. Così le miniere vengono chiuse o nazionalizzate; negli anni ’70 la crisi petrolifera dopo la guerra del Kippur spinge a riprovare con il carbone nella speranza di integrarlo in una nuova filiera industriale, dal minerario al manifatturiero, mentre lo stato tenta la carta della petrolchimica e dell’industria metallurgica, figlia legittima della crisi mineraria e del suo collasso occupazionale. Scommesse piene di denaro pubblico e d’incognite.
In un secolo e mezzo di miniere il Sulcis è completamente cambiato, dentro e fuori: stravolto il territorio, mutato per sempre l’ecosistema, rivoluzionata la composizione sociale e persino quella “politica”. Impossibile tornare indietro, difficile andare avanti. Migliaia di persone ci sono arrivate dal resto della regione e altre migliaia hanno cambiato costumi e abitudini per lavorarci scendendo sottoterra; centinaia ne sono morte, rimaste mutilate o irrevocabilmente ammalate.
Per sopportare le paure hanno stretto un patto solidale come solo nel profondo di un pozzo si può fare; e a ogni risalita dal buio la rabbia cresceva, si trasformava in sindacati e partiti politici, creando la realtà e il mito del “minatore rosso”. Qui le miniere si sono prese tutto portando pochi denari ma molto conflitto. Il primo sciopero generale del regno d’Italia nasce proprio nel Sulcis, nel 1904, dopo l’eccidio di Buggerru, cittadina nata con la sua miniera metallurgica, sulla costa occidentale, chiamata “petit Paris” per l’eleganza transalpina dei dirigenti della Società des mines de Malfidano.
Clima raffinato che non impedisce loro di sfruttare il più possibile i dipendenti o chiamare l’esercito quando fondano la Lega di resistenza, scioperano contro il taglio delle pause e accompagnano a trattare il sindacalista Giuseppe Cavallara: la milizia spara, uccide tre minatori e ne ferisce molti altri. E’ il 4 settembre, domenica. La Cgil non è ancora nata ma la Camera del lavoro di Milano e i socialisti rivoluzionari di Arturo Labriola sì: il 15 iniziano quelli che Luigi Albertini sul Corriere della Sera bolla come “cinque giorni di follia”.
E’ tutto questo che le miniere del Sulcis si portano sulle spalle quando arrivano alla loro ultima curva: cultura e tradizione dell’industria più dura, lunga corsa sul filo dell’emancipazione sociale, sogno di riscatto territoriale che s’è fatto moderna politica. Un bel peso. E qui qualunque cosa facciano la fanno per davvero.
Alla fine degli anni Sessanta ci abbiamo creduto tutti. I privati e le multinazionali se n’erano andati, le miniere di carbone quasi tutte chiuse, quelle metallifere in chiusura. Ma noi volevamo puntare su un ciclo integrato minerario, metallurgico, manifatturiero a proprietà e indirizzo pubblico per rilanciare la Sardegna con la sua millenaria tradizione. Siamo cresciuti qui e qui abbiamo imparato tutto studiando alla scuola per periti minerari, la più antica d’Italia, fondata da Quintino Sella a Iglesias quando tutti i minatori erano sardi e bisognava formare i nuovi tecnici che prima venivano da fuori.
Il Sulcis era il crocevia della scienza mineraria mondiale, ci arrivavano da tutte le parti, il mondo universitario premeva per sviluppare la ricerca, sosteneva che si potevano scoprire nuovi giacimenti e renderli redditizi integrando miniere e industrie. Lo sostenevano i grandi luminari del settore estrattivo come il professor Carta che a Cagliari aveva aperto la facoltà d’ingegneria mineraria più importante del mondo. Le nostre foresterie erano piene di studenti dei paesi più diversi che rinverdivano la nostra tradizione di ricerca. Chi ha iniziato a lavorare nei primi anni ’70 ricorda bene quella bellissima esperienza di studio e ricerca, che incrociava le nostre radici con la voglia di riscossa della Sardegna abbandonata e il bisogno di dare lavoro, valorizzava un grande patrimonio tecnologico, produceva un bel fermento.
Era anche un grande movimento politico e culturale, molti erano del Pci, potevamo essere al tempo stesso sardisti e comunisti. Per dire che chi se n’era andato aveva avuto torto, che la Sardegna poteva svilupparsi ed emanciparsi tenendo insieme tradizione e innovazione. Noi tecnici cresciuti in quel periodo ci credevamo, eravamo convinti che si dovesse andare in quella direzione e fu una bella avventura quella del “giacimento Carlo Marx”, l’ingegnere tedesco – non il filosofo – che a fine 800 era venuto qui, aveva riempito il Sulcis di scavi trovando piombo e zinco seguendo l’argento e una sua guida geologica. In uno di questi “scavi Marx” erano ripresi i lavori trovando un enorme giacimento che aveva dato impeto alla nuova stagione estrattiva. L’ultima.
Negli anni ’60-70 di miniere ce n’erano ancora e non solo in Sardegna: dall’Amiata al Friuli, in Italia ci saranno stati circa 30.000 minatori e noi eravamo il centro di questo mondo, dando ragione a chi sosteneva la necessità di riprendere le estrazioni per gestirle bene integrandole con le produzioni industriali. E’ stato per noi un periodo straordinario, con l’introduzione di nuove tecnologie in quella grande miniera Marx. Anche se dalle altre coltivazioni non veniva fuori più nulla o quasi, tanto che Monteponi non è più ripartita, se non con progetti faraonici e troppo costosi, perché tutte queste miniere hanno il problema della falda acquifera che bisogna asciugare per poter scendere più in profondità. Prosciugando tutto il bacino attorno con un grande impianto d’eduzione centralizzato.
L’obiettivo era arrivare a meno 200 sul livello del mare, scendere di altri 100 metri per rendere nuovamente utilizzabile ed economicamente redditizia la vecchia miniera. Trascinare fuori da lì un fiume d’acqua per poter estrarre il minerale. Con il Pozzo Sella. Ma i costi erano enormi e le coltivazioni costosissime. Sono stati anche commessi degli errori tecnici, per voler dimostrare a tutti i costi che era possibile e conveniente estrarre minerali, anche contro i dati di fatto. Così dalla scienza mineraria siamo passati all’ideologia mineraria. Si è continuato a scavare comunque, anche oltre il dovuto, come nella miniera Marx, finendo col fare crollare tutto e lasciando solo una grande frana.
Dagli anni ‘70 alla fine dello scorso millennio siamo andati avanti così. Poi si sono persi altri dieci anni in cui non abbiamo creduto in un futuro diverso, nella riconversione del territorio. Per 40 anni abbiamo inseguito l’estrazione mineraria a tutti i costi, mentre c’era chi diceva che si poteva valorizzare il patrimonio ambientale, naturale e puntare anche sull’archeologia industriale, mettere a valore ciò che eravamo stati, come avevano fatto negli Usa con le vecchie miniere, puntando sul turismo. Se provavi a proporlo “ti facevano nero”. L’accusa era: “volete trasformarci in camerieri”. Il risultato è che oggi mio figlio laureato con 110 e lode fa il cameriere a Oxford, perché qui ora non c’è nemmeno più quella possibilità. 40 anni buttati via.
Siamo tutti complici di questa situazione, fino alla fine degli anni ’90, con l’Ente minerario sardo e il progetto di gassificazione, mutuato da Spagna e Olanda, dove si bruciava il carbone ad altissima temperatura per trasformarlo in gas e quindi in energia. Abbiamo provato anche questo, riorganizzando così la miniera per lanciare un bando internazionale: è andato deserto facendo crescere i dubbi sul futuro minerario del Sulcis. Eppure anche allora politici e burocrati hanno continuato sulla stessa strada, inventandosi cose impraticabili come il “sequestro del Co2” in miniera. Dicendo bugie, illudendo le persone, imbrogliando e spendendo un sacco di soldi in cambio di un reddito spacciato per lavoro. Soprattutto in cambio di voti.
Il declino minerario del Sulcis è un colpo troppo duro da assorbire senza reagire. Per oltre cent’anni tutto ha girato attorno a cave e scavi che hanno dato lavoro a migliaia di operai e creato un indotto altrettanto grande. E’ un territorio intero che rischia d’andare in tilt, prospettiva insopportabile per chiunque ma in particolare per lo stato che aveva sostenuto quello sviluppo, per i sindacati e i partiti di sinistra che in esso si erano radicati. Nel ’68 nasce l’Ente minerario sardo, di proprietà regionale, che prende in carico tutti i siti ancora aperti ma abbandonati dalle multinazionali, in particolare dalla francese Pertusola.
C’è ancora parecchio carbone ma alcuni filoni sono in esaurimento, altri stanno diventando troppo profondi e pompare fuori l’acqua delle falde costa parecchio. Tuttavia i sardi ci vogliono provare. Nel frattempo sulla costa, a Portovesme, nasce il polo industriale, figlio legittimo della crisi mineraria. Sarà la continuazione manifatturiera della sua storia e darà lavoro ai figli degli ex minatori: centrali a carbone, produzione di zinco e tutto il ciclo dell’alluminio, il “ferro del futuro”. Finanziamento e gestione sono pubbliche, con l’Efim, finanziaria delle Partecipazioni statali e sorella dell’Egam, l’ente che si occupa di sostenere le miniere in difficoltà.
Così negli anni ’70 un sacco di soldi pubblici arrivano nel Sulcis. Sulla costa le fabbriche dell’alluminio funzionano e riassorbono una parte della mano d’opera espulsa dalle miniere. Che continuano nella loro crisi nonostante tutti i tentativi di gestioni più o meno creative, passaggi di proprietà dalla regione allo stato e ritorno, esperimenti di nuove organizzazione del lavoro e persino la creazione di nuovi prodotti. Il problema è che il carbone del Sulcis senza le protezioni doganali è troppo costoso. Perdipiù la concorrenza è forte, dalla Polonia e dal Sud Africa arriva del materiale che ha una resa migliore e inquina meno, possiede il doppio del potere calorico e ha solo un decimo dello zolfo sardo.
Nel Sulcis ci provano con la gassificazione, per produrre energia pulita bruciando il minerale a temperature altissime. Un sistema “ecologico” che in altri paesi funziona. Ma da noi non riesce a partire, non per colpa degli ingegneri ma per il carrozzone burocratico e le tante clientele che ormai sporcano il carbone. Nel frattempo, chiusa l’Egam, i siti passano all’Eni mentre sul territorio si tenta la strada del “ciclo integrato” miniera-centrale, con uno stesso gestore che recuperi le diseconomie dell’estrazione per produrre energia elettrica con tecnologie più moderne. Che però stanno tutte andando nella direzione del “verde” rendendo ancora meno conveniente il vecchio combustibile nero.
Ma tra Iglesias e Carbonia fino agli anni ‘90 è ancora il tempo di “carbone o morte”, ogni proposta di riconversione è considerata disfattismo, l’incubo di nuovi disoccupati diventa una minaccia politica per ottenere altri finanziamenti e insistere su nuove varianti della vecchia strada: in termini umani e sociali, un migliaio di posti di lavoro a rischio pesano moltissimo in un territorio dove la disoccupazione viaggia verso il 20%. Forse valgono persino di più in consenso politico e quote elettorali. Così, fallito anche il “ciclo integrato”, rimaste aperte solo un paio di miniere, torna in campo la regione Sardegna.
L’Eni deve privatizzare, quotarsi in borsa e disfarsi delle miniere: nel 1995 mette all’asta la vecchia Carbonsulcis, ma visto che nessuno se la prende, l’anno dopo tutto ritorna all’Ente minerario sardo. E si ricomincia, senza cambiare strada, perché uomini di palazzo e d’apparato preferiscono scambiare clientele e consenso piuttosto che cercare qualche alternativa. Tra periodi di chiusura, contributi statali che l’Europa minaccia di sanzionare e fondi comunitari per nuove ricerche e piani di riconversione – in tutto 405 milioni di euro passati da queste parti dal 1998 al 2010, che l’Ue ora intende riavere – nasce l’estremo tentativo, il “sequestro della Co2”.
Progetto dal nome un po’ inquietante e dal contenuto molto complicato basato sull’idea di usare come trappola geologica le grandi cavità carbonifere ormai inutilizzate e riempirle di gas, magari riavendone metano liberato dal carbone. Il riuso dei tanti vuoti lasciati nel terreno da quasi due secoli di sfruttamento territoriale rimane però sospeso per aria, non ha nemmeno il tempo di essere studiato davvero e testato. Perché da Roma soldi non ne danno più a nessuno e da Bruxelles rivogliono indietro quei milioni che considerano essere stati sprecati; nel migliore dei casi sono disposti a fare un consistente sconto in cambio di un serio progetto di dismissione, messa in sicurezza e riqualificazione del territorio. Fine di ogni discussione, di redditività delle miniere non se ne parla e non se ne potrà più parlare.
Nuraxi Figus vive solo per essere messa in sicurezza, nessuno dei nuovi brevetti immaginati lì dentro può essere preso in considerazione, nell’intreccio di burocrazie e favori è andato perduto persino il progetto di tutela dell’area che prevedeva uno “spegnimento lento” entro il 2018. Oltre ai debiti e agli abusi su cui indaga la magistratura, resta l’incognita della sorte che toccherà alle persone. Negli anni 2000 il numero dei minatori diminuisce lentamente, fino a 430. L’ombra del mito che è stato, caschi gialli da usare ancora, questa volta agitati dai professionisti della clientela. Ma pur sempre persone in carne e ossa. Che in testa hanno ben più che un caschetto di protezione.
L’impatto con la miniera era traumatico anche per chi è nato e cresciuto qui: ti mandavano dove sparavano le mine, a 400 metri sotto il livello del mare, per fare le gallerie e arrivare al taglio del minerale. Eravamo poco più che ragazzini ma all’inizio c’era l’entusiasmo per un lavoro fisso in un posto dove c’è sempre stata tanta disoccupazione o precarietà. Negli anni ’80 alla Carbonsulcis c’erano 1.200 lavoratori. Minatori e operai con la terza elementare ma una grande dignità e se i capi volevano sfruttarti o mandarti a lavorare “sotto frana” loro si opponevano e lo dicevano in faccia al direttore della miniera: “io i miei ragazzi lì sotto non li mando, se vuole ci vada lei”. Erano compagni di vecchio stampo. C’era solidarietà tra noi, la più grande che ci può essere, quella tra uomini nel buio delle gallerie. Fuori magari, come succedeva al mercato del vino, finiva a cazzotti per un torto, uno sgarro vero o presunto, ma era una sola famiglia là sotto. Dove non si può fumare, non si può mangiare e non si può bere. Solo lavorare respirando insieme, fidandoci e affidandoci l’uno all’altro.
Quando siamo entrati si facevano i tre turni di otto ore. Poi sono diventati quattro, ma sempre di otto ore con le squadre che si sovrapponevano, perché – dicevano – bisognava aumentare la produttività per non chiudere. Stare otto ore sottoterra non è un piacere, ma starci di notte è peggio, anche se uno potrebbe pensare che dentro o fuori non c’è differenza. Quando si smontava alle nove del mattino ci si addormentava per strada. E tutto questo per due soldi: gli stipendi non sono mai stati alti, adesso che siamo arrivati alla fine di tutto, con i turni si arriva a guadagnare 1.500 euro al mese. Per restare lì sotto quindici anni, con varie mansioni.
Poi ti portano su a lavorare in magazzino o al lavaggio del carbone. Adesso là sotto le cose vanno un po’ meglio, l’esplosivo non si usa più, c’è una macchina che scava il “grosso”, una fresa come quelle per le metropolitane. Ma è cambiato anche il clima tra di noi, è subentrato l’arrivismo e l’individualismo, la corsa al passaggio di categoria che un tempo si dava solo per la professionalità e da quando siamo diventati dipendenti regionali è ridotto a un sistema di corruzione e ricatto. Così l’entusiasmo e la voglia se ne sono andati via. Anche perché sembra di essere diventati inutili.
Questa è l’ultima miniera di carbone che c’è in Italia. Il nostro carbone viene estratto e poi lasciato lì nel carbonile: all’Enel Carbonsulcis non interessa per produrre energia, la usa come discarica per buttarci le ceneri e i gessi residui delle sue centrali. L’Enel ha mollato le miniere tanti anni fa, quando ancora ci lavoravano i nostri padri, l’Eni se l’è prese solo per fare clientele e distribuire mazzette. E L’Eni poi le ha passate alla regione Sardegna, continuando nello stesso modo, con appalti e mazzette distribuiti in ugual misura tra destra e sinistra. Nel frattempo l’Enel ha riempito di pale eoliche tutti i dintorni della miniera, l’energia prodotta qui è fin troppa, la vecchia centrale a carbone va avanti a mezzo servizio, quindi che senso ha continuare a progettarne una nuova quando già sappiamo che non useranno mai il nostro carbone?
Noi la miniera non la vogliamo tenere aperta a tutti i costi, viviamo il dramma del lavoro che non c’è ma nessuno di noi ha sposato la miniera. In continente non lo sanno, credono che vogliamo restare minatori a vita. Non è questo che vogliamo per i nostri figli. Quello è il messaggio che manda chi vuole manovrarci. Come durante la farsa dell’ultima occupazione, nell’estate del 2012, organizzata da sindacalisti e politici collusi con il giro degli appalti. E’ stata solo un’operazione pubblicitaria ispirata dal deputato Mauro Pili, con tutte le fesserie della dinamite pronta a esplodere e i minatori disposti al suicidio: quella mattina d’agosto siamo arrivati in miniera e l’abbiamo trovata già occupata, Pili era già lì, giù nel pozzo.
C’è anche una fotografia di lui col casco mescolato agli occupanti. Poi però le buste paga più leggere di 400 euro erano le nostre. Qui ormai è tutto pilotato: dagli appalti delle mense e dei trasporti alle elezioni politiche a quelle per le Rsu, un giro di clientele assurdo. La nostra miniera oggi serve solo a distribuire soldi e potere, da anni le poche assunzioni fatte sono state per parenti o amici di dirigenti e sindacalisti. A ogni elezione di Rsu, per 11 delegati, ci sono centinaia di telefonate di consiglieri regionali e deputati che chiamano per dire chi votare.
Nel ’93 abbiamo iniziato la carriera da cassintegrati e non è mai finita. Adesso praticamente facciamo quasi solo atto di presenza, si lavora per la messa in sicurezza dell’impresa, anche la poca estrazione che si fa è per completare il lavoro già iniziato. Da due mesi in reparto gli ordini arrivano con un timbro nuovo che dice tutto: “Carbonsulcis, attività custodia e messa in sicurezza”. Andiamo verso la dismissione ma ne sappiamo qualcosa solo attraverso la stampa, perché i sindacati non ci dicono nulla. Dovrebbe esserci un piano di chiusura, ma non sappiamo. Si accenna a prepensionamenti, a incentivi, ma si sono dati un tempo lunghissimo, entro il 2027, quando la Carbonsulcis dovrebbe restituire bonificato e risanato il territorio che sta utilizzando da decenni.
Noi non vogliamo vivere d’assistenza, vorremmo uno stipendio guadagnato e destinare quelle 8 ore a qualcosa di utile per questa terra, per il suo ambiente: siamo poveri, ma la dignità è importante. E poi abbiamo voluto diventare poveri, perché in questo territorio tutto è stato chiuso e smantellato ma la classe dirigente è rimasta sempre la stessa, non l’abbiamo cacciata. Sono quelli che sono andati avanti a oltranza bussando alle casse della regione, dello stato e dell’Europa, per avere i soldi al motto di “o carbone o morte”, distribuendo privilegi e mance.
Creando un blocco di consenso hanno trasformato i diritti in favori: abbiamo visto in questi anni le file dei lavoratori fuori dagli uffici dei vari presidenti a chiedere favori in cambio di pacchetti di voto. Così Carbonsulcis si è ridotta a un bacino di voti da tenere in vita il più possibile per rinnovare le clientele, il consenso e prender soldi dall’Europa. Quando è saltato il progetto di gassificazione abbiamo capito che non c’era più futuro per la miniera; se non quello degli imbrogli, degli sprechi, degli appalti truccati o dei pezzi pagati il triplo del dovuto per distribuire un po’ di denaro pubblico. Nel piazzale ci sono 260.000 tonnellate di carbone, comperato e mai utilizzato dall’Enel, che se ne va lentamente in polvere. E vola via. Noi via non andiamo, qualcosa di diverso si può fare su questa terra.
Tra i 500.000 metri cubi d’edifici abbandonati con le miniere ce n’è uno che li rappresenta e li riassume tutti. Al centro di Monteponi, tra officine e strutture cadenti che sotto il sole e il maestrale sembrano un set di Sergio Leone, c’è il cuore ancora vivo di una vicenda fatta di piombo, carbone e zinco: l’Archivio storico minerario, in un magazzino ristrutturato, raccoglie migliaia di documenti, mappe, libri, disegni, studi, fotografie, libri matricola e contabili. Sono scienza e memoria delle miniere e del loro territorio, della sua industria e delle persone che l’hanno fatta. E’ tenuto in vita un pugno studiosi, quasi tutti lavoratori “a termine”, precari come i finanziamenti sempre incerti e aleatori. Ci passano studenti, ingegneri e qualche turista che da quegli scaffali possono apprendere tutto ciò che è avvenuto in qualunque tipo di miniera in ogni angolo d’Italia, quelle del Sulcis su tutte.
Alle pareti le mappe degli scavi, le sezioni delle montagne e delle cave, i progetti per i macchinari da scavo e di trasporto, qualche dipinto di stampo realista. In quelle che erano le celle per i galeotti mandati qui a “rieducarsi” sono esposte grandi immagini in bianco e nero: minacciose guardie del corpo di un direttore non troppo amato, magri torsi nudi di uomini al lavoro nelle gallerie, treni della ferrovia Monteponi, i suoi imbarcaderi privati, l’iglesiente squadra di calcio Monteponi all’inaugurazione dello stadio Monteponi. Più in là copie in legno di prototipi d’attrezzi da scavo per estrarre meglio e con maggior profitto. Sui grandi tavoli sono aperti centocinquant’anni di libri matricola delle maestranze, dal 1850 in qua. Migliaia di nomi e cognomi, date di nascita, d’assunzione e di dimissione, con brevi note a margine per ciascuno: “sfaticato”, “piantagrane” o “sovversivo”, “indicato dal signor ingegnere” o “licenziato per rissa”. Un bignami della lotta di classe, mossa più dall’alto verso il basso che viceversa anche quando il capitale era molto nazionale e poco finanziario.
Pur senza averne il sigillo formale l’Archivio è un vero patrimonio dell’umanità oltre che un pozzo di scienza per chi viene da quelle parti del mondo dove estrarre minerali dalla terra è ancora considerato conveniente: gli studenti lo usano per le proprie tesi, gli storici per capire come andavano un tempo le cose lì attorno, l’impatto dell’economia mineraria, le relazioni sociali, le trasformazioni di culture e costumi. E il lavoro con annessi dolori e speranze, i suoi conflitti individuali e collettivi. Tutto, su cos’era e com’era; ma anche un pezzetto di futuro, di cosa potrebbe essere se quei 500.000 metri cubi si rimettessero in moto, diventando nuovamente una risorsa per abbandonare la china di un costoso insieme di terreni inquinati e pareti da puntellare.
L’idea giusta l’avrebbero pure avuta, qui nel Sulcis, quando le miniere chiudevano una dopo l’altra senza che le fabbriche di Portovesme riuscissero a colmarne il vuoto per soddisfare la fame di lavoro. Negli anni in cui le coltivazioni di metalli e carbone tramontavano insieme al secolo che le aveva rese grandi, proprio da loro e dalla necessità di bonificare un territorio inquinato da metalli pesanti d’ogni tipo nasce un’ipotesi di riconversione per ridare valore a quel mondo, al suo patrimonio ambientale, storico e culturale. Il modello è simile a quello che si afferma proprio allora nel bacino minerario e industriale della Ruhr, dove in dieci anni vengono investiti due miliardi di euro per risanare 300 chilometri quadrati, fare dell’archeologia industriale un’attrazione turistica e storica, senza aspettare che chiudano le fabbriche.
L’Ente minerario sardo non ha le risorse dei tedeschi ma può puntare su un ambiente molto più attraente: così partendo dalla necessità di mettere in sicurezza i vecchi pozzi abbandonati nasce l’idea del Parco Geominerario storico e ambientale della Sardegna. Dovrebbe trasformare miniere, magazzini e officine in musei, alberghi, foresterie, archivi e percorsi turistici, con il vantaggio di affacciarsi su un mare da cartolina e nemmeno troppo frequentato. Il progetto piace all’Unesco che nel 1998 firma la “Carta di Cagliari” con il governo italiano, la regione Sardegna e il suo Ente minerario.
Sembra un nuovo inizio per la terra delle miniere abbandonate, tanto che vengono stanziati due miliardi di lire per gli studi di fattibilità in attesa della legge che dovrà istituire il Parco dando vita a un progetto che, diviso in otto aree per quasi 4.000 chilometri quadrati, ha il solo difetto di essere un po’ troppo grande per le spalle di chi lo deve reggere. Rischiando di perdersi in un dedalo di enti, burocrazie e interessi particolari, alimentando clientele e inefficienze che precipitano nell’usuale accusa, “troppi vincoli allo sviluppo”.
In realtà i vincoli il sistema politico – italiano e sardo – se li pone da solo e da subito. Dopo la firma della Carta di Cagliari, mentre le miniere chiudono una dopo l’altra in un crescendo d’abbandono, gli studi vengono completati ma la legge per l’istituzione del Parco non arriva, l’Unesco inizia a innervosirsi, l’occasione di riconversione e nuovo lavoro rischia di sfumare. Così il 5 novembre del 2000 parte un’occupazione di miniera del tutto particolare: in primo luogo perché la miniera è chiusa da un bel po’, in secondo luogo perché non ne chiede lo sfruttamento ma un nuovo tipo di gestione.
Per un anno l’ex presidente dell’Ente minerario sardo, Giampiero Pinna – accompagnato dalla staffetta dei suoi lavoratori e amici – vive dentro Pozzo Sella, nelle viscere di Monteponi, allo scopo di ottenere ciò che era stato promesso: una legge, i relativi finanziamenti e il personale necessario a far partire il progetto. Ne esce il 6 novembre del 2001 con in mano un decreto istitutivo del Parco e la possibilità di farlo partire con uno stanziamento annuale di sei miliardi di lire e l’assunzione di 500 lavoratori.
Sembrano davvero le premesse per la sempre annunciata rinascita iglesiente e sarda. Ma non è proprio così. Nei dieci anni successivi tutto si riperde nuovamente, tra competenze che si sovrappongono, interferenze o indifferenze dei governanti locali o nazionali, l’ostilità di sindacalisti che considerano il Parco nemico del carbone, incarichi assegnati per via amicale o clientelare. Il risultato è un mix di oblio e spreco: l’ente regionale proposto al risanamento dei siti lavora a scartamento ridotto e usa gran parte delle risorse per manutenzioni un po’ casuali – quelle che i sindaci non riescono più a fare per mancanza di fondi, dai marciapiedi alle mura pisane di Iglesias; il Parco esiste più sulla carta che nella realtà, i siti vanno lentamente in rovina, i finanziamenti pubblici diminuiscono di anno in anno eppure sono quattordici i milioni di euro che giacciono inutilizzati in cassa; l’occupazione non ne ha tratto un gran giovamento, un paio di centinaia di addetti alle messe in sicurezza, per il resto tutto è ridotto all’iniziativa individuale di chioschi e ristoranti stagionali o al volontariato delle associazioni che “inventano” il Cammino minerario di santa Barbara per far visitare quello che doveva essere il Parco minerario più grande e importante d’Europa, affidandosi a bed and breakfast e agriturismo dove mancano le strutture che i vecchi magazzini e le antiche officine avrebbero potuto fornire. Quel che non manca, invece, sono le inchieste della magistratura sull’uso dei fondi pubblici stanziati per la rinascita del Sulcis.
Il mezzo fallimento del Parco non salva Carbonsulcis né le fabbriche di Portovesme. Fa invece crescere la rabbia per le occasioni sfumate, il vuoto dei lavori scomparsi, le vite e i saperi consegnati a un padrone o a uno straniero che li hanno consumati lasciando a chi resta il rimpianto delle macerie.
Dalla CarbonSulcis all’Alcoa c’era un esercito di operai in appalto, manutentori meccanici per quelle ditte che le grandi aziende utilizzano per risparmiare, abbassare il costo con le gare al massimo ribasso. Una cosa accettata da tutti e in silenzio, soprattutto quando le miniere hanno iniziato a chiudere e il lavoro si è spostato nelle fabbriche di Portovesme ma era per meno persone. Con il sindacato che faceva di necessità virtù e pur di salvare i posti consentiva gli appalti, chiudeva gli occhi anche sulle ditte che cambiavano nome e ragione sociale da un giorno all’altro per continuare ad avere gli sgravi fiscali. Noi appaltisti eravamo i figli di un dio minore… Degli anticipatori, perché oggi lo sono quasi tutti.
E’ questo sistema che ha fatto fare all’Alcoa grandi profitti, dal ’96 al 2012 un utile medio di 80 milioni l’anno, grazie agli aiuti di stato e agli sconti per i due milioni di megawatt che consumava ogni anno e che noi poi pagavamo in bolletta. Ma l’Alcoa voleva sempre più guadagni e così ha deciso di chiudere. Adesso che siamo tutti fuori, diretti e indotto, con lo stabilimento fermo, è davvero penoso pensare a tutti i giorni in cui entrando qui dentro, con il cartellino timbravi anche il rischio di un pezzetto di tumore, qui di tre volte superiore alla media regionale.
Non è nemmeno rabbia, neanche per una cassa integrazione da 900 euro al mese, che non arrivano mai perché l’Inps paga sempre in ritardo. E’ la tristezza per il lavoro, le energie e le speranze regalate ai profitti quando aggiustavamo una macchina che si fermava convinti di fare un bene per tutti, di contribuire al progresso. E tu provavi persino piacere ad aggiustare quella macchina, eri soddisfatto di riavviare un impianto fermo e ridargli vita. Come succedeva in miniera, quando passavi dodici-quattordici ore di fila a 200 metri sotto il mare per cambiare i pistoni delle chele della scavatrice. Era la soddisfazione del tuo impegno, potersi dire “guarda, sono riuscito a risolvere il problema”. Invece tutto questo era solo funzionale agli utili di una multinazionale che già in quel momento pensava di andarsene portando via i soldi e lasciando al territorio e ai suoi abitanti soltanto le macerie e le malattie.
Nelle grandi sale d’elettrolisi dell’Alcoa, dove la polvere d’allumina veniva trasformata in metallo, c’erano 320 celle elettrolitiche – roba da dodici metri per quattro ciascuna – eravamo esposti alle poveri, al magnetismo, agli sbalzi termici. Abbiamo visto colleghi ammalarsi di tumore, osteoporosi, malanni d’ogni genere. Ma non c’era scelta, non potevamo pensare a un altro posto di lavoro, dovevamo ritenerci fortunati di avere quel lavoro in un’isola dove ce n’è poco. Ci abbiamo lasciato la vita e i nostri mestieri. E adesso questa fabbrica decide di chiudere, non vuole nemmeno vendere davvero. Quando abbiamo spento gli impianti, per ogni cella chiusa ci passava davanti il film di una vita, dei compagni che c’erano e di quelli che non ci sono più: stavamo chiudendo noi stessi, era come partecipare al proprio funerale. Questa fabbrica non era nostra o di Alcoa, era una fabbrica del territorio, che bene o male manteneva in piedi l’intera economia della zona.
L’incazzatura è per chi ci rappresenta ai diversi livelli istituzionali, dai mediocri politici locali fino ai loro sodali del livello nazionale, che si dividono solo per conquistarsi la gestione d’interessi che niente hanno a che vedere con i lavoratori, con chi pretendono di rappresentare come cittadini. Tu lavori, ti impegni, sostieni un’idea e alla fine capisci che il piano Sulcis non è altro che la base per la prossima campagna elettorale, con i fondi destinati che si spostano alla Maddalena, poi a Porto Torres, poi a Macomer, poi tornano da queste parti… e sono sempre gli stessi, non si fermano mai, vanno un po’ dovunque… come i lavoratori. Che però si vanno a prendere le manganellate per difendere il lavoro e diventano ostaggi delle manovre dei politici, ridotti a soggetti passivi in mano ad altri, narcotizzati dalla cassa integrazione o storditi dalla disoccupazione a subire il berlusconismo che ha contagiato tutti e tutta la politica. Lasciandoci nel buio assoluto, più pesto del buio della miniera.
Anche il buio ha i suoi numeri. In Sardegna alla fine del 2013 su 1.641.000 abitanti 130.000 sono disoccupati e 115.000 cassintegrati: quasi 250.000 persone sono in vario modo senza lavoro, superano il 30% della popolazione potenzialmente attiva – gli 800.000 cittadini tra i 15 e i 65 anni d’età – cui bisognerebbe aggiungere i “sommersi”, quelli che spariscono dalle statistiche perché non hanno mai lavorato o hanno rinunciato a cercare un’occupazione. E il buio non è nemmeno sempre uguale, può diventare persino più fitto: nel corso del 2013 gli occupati sono scesi di 50.000 unità, il tasso di disoccupazione è salito del 3,6% arrivando a sfiorare il 19%.
Tutta l’isola e tutti i settori economici stanno arrancano, perché qui i problemi sono sempre di casa e quando nel continente arriva l’ultima grande crisi economica, depressione e recessione non hanno bisogno di prendere il traghetto o l’aereo. Che invece devono prendere uomini e merci, se vogliono spostarsi, un nuovo handicap da sommare agli altri. Se poi i padroni dei traghetti “fanno cartello” e un Cagliari-Civitavecchia costa come una crociera nei Caraibi – senza che lo stato dica nulla per non violare la libertà dei mercati – allora pure il turismo rischia la fine della metallurgia.
Il buio, poi, ha pure un fondo. L’area Iglesias-Carbonia un paio d’anni fa aveva il primato di provincia più povera d’Italia. Ora non sappiamo perché l’entità amministrativa non esiste più, abrogata da un referendum regionale insieme a tutte le altre province dell’isola. Ma la situazione sociale non è certo migliorata. Lo dicono anche le curve demografiche che qui indicano quanta gente se ne è andata a cercar lavoro altrove: nel 1991 gli abitanti erano 139.000, nel 2011 128.500; il tasso di disoccupazione nel 2010 era al 19,1% – 10% due anni prima – e nel corso del 2011 i disoccupati sono cresciuti di 1.254 unità portando il tasso dei senza lavoro sopra il 20%.
La ricchezza procapite – ammesso che il Pil sia l’indicatore giusto per misurarla – nel 2010 era di 15.450 euro, diecimila euro sotto la media nazionale, la metà della provincia di Milano. I luoghi in cui il buio s’è fatto più fitto negli ultimi anni si concentrano nella zona che va dal capoluogo alla costa di fronte l’isola di san Pietro. Con nomi e numeri che misurano la temperatura sociale non quella atmosferica: Carbonsulcis meno 600, Alcoa meno 900, Eurallumina meno 600, ex Ila meno 200; quattro aziende con il loro indotto, 2.300 lavoratori in cassa integrazione, su un totale di 3.800 addetti industriali. Una bomba sociale perennemente innescata, in periodica fibrillazione e pronta a esplodere nel momento in cui finisce l’anestetico degli ammortizzatori sociali.
Dovevano essere le eredi delle miniere, costituire il rilancio industriale di una tradizione millenaria e la soluzione politica alla fine dell’età del carbone: grandi fabbriche piazzate nel luogo giusto al momento giusto, con un porto a disposizione nell’era delle nuove leghe metalliche. Quarant’anni dopo Portovsme è diventata un boomerang: lanci sviluppo e nuova occupazione, tornano indietro fabbriche chiuse e nuovi disoccupati. L’idea industriale era quello di una filiera completa, produrre una merce – l’alluminio – in tutti i suoi passaggi, sotto il governo di una stessa mano – quella delle partecipazioni statali. Nel nostro piccolo è lo stesso principio che ispira oggi i giganti orientali, come Samsung che non esternalizza nulla e fa tutto con uno stesso marchio e in una stessa azienda, dalla fusione della materia prima al montaggio di smartphone e computer. Solo che in Corea non si sognerebbero mai di spezzettare il governo dei diversi stabilimenti in altrettante aziende, tanto meno di perderne il controllo vendendole agli “stranieri”. Nella punta sud occidentale della Sardegna invece sì.
Tra il 1969 e il 1972 l’Efim cambia la faccia di Portovesme. Prima era sono una centrale a carbone e il porto della Monteponi, lo sbocco dei suo metalli, frazione di Portoscuso, imbarco per minerali e viaggiatori diretti all’isola di san Pietro. In tre anni il gruppo delle partecipazioni statali apre Eurallumina, Alumix, Sardal e Comsal. Quasi 4.000 operai che – nell’ordine – trasformano la bauxite in polvere d’allumina, la fondono in barre, pani e lastre d’alluminio, la fanno infine diventare profilati e semilavorati per finestre, motori, pezzi d’automobile, pellicole per alimenti e mille altre cose più o meno domestiche: in tutto 150.000 tonnellate annue d’alluminio, il 15% del consumo nazionale.
Accanto, apre anche l’Ammi, un altro frutto di investimenti pubblici, che poi diventerà Portovesme srl, per produrre piombo, zinco e acido solforico. Fino agli anni ‘90 le fabbriche vanno avanti abbastanza tranquillamente, cambiando più volte nome e gruppi dirigenti come si usa in ogni gruppo pubblico. Poi arriva l’era delle privatizzazioni, l’Efim viene smantellata e gli stabilimenti di Portovesme messi in vendita. Se li comperano due multinazionali, agli americani dell’Alcoa la produzione vera e propria dell’alluminio, agli svizzeri della Glencore l’Euralluminia e la fabbrica di piombo e zinco, che inizia a lavorare i fumi d’acciaio, inquinantissimi scarti ferrosi delle acciaierie.
L’Alcoa è in Italia già dal 1967, ma solo con delle rappresentanze commerciali. Nel 1996 il terzo gruppo mondiale per la produzione dell’alluminio, nato un secolo prima a Pittsburgh la città dell’acciaio della Pennsylvania, 60.000 dipendenti nel mondo e un fatturato sui 25 miliardi di dollari, acquista gli stabilimenti di Portovesme e di Fusina, vicino a Venezia. Fino al 2008 va tutto bene, un po’ perché il prezzo dell’alluminio rimane sufficientemente alto e molto per lo sconto del 50% che il governo italiano garantisce all’Alcoa sui suoi grandi consumi d’energia; le tonnellate di fanghi inquinanti non le guarda nessuno.
Poi la recessione mondiale fa precipitare del 20% il prezzo dell’alluminio e, soprattutto, nel gennaio 2009 l’Unione Europa bolla come aiuti pubblici e perciò illegittimi gli abbuoni energetici concessi dal governo italiano, calcola che solo negli ultimi tre anni il gruppo americano ha incassato 556 milioni di euro dalla Cassa conguagli dello stato e ne ordina la restituzione. Improvvisamente Alcoa vede tutte le pecche di Portovesme: scopre che è su un’isola; ha un porto troppo piccolo, a mezzo servizio con i traghetti dei turisti e poco profondo per le grandi navi merci; i costi di trasporto e di produzione sono troppo alti. Per parare il colpo che arriva dall’Ue il governo italiano vara un apposito provvedimento – subito rinominato “decreto salva-Alcoa” – che estende le agevolazioni tariffarie a un largo numero d’imprese in modo che non appaiano ad aziendam; anche perché il costo dell’energia in Italia è davvero troppo alto, superiore di circa il 35% alla media europea.
Ma è ormai troppo tardi: mentre l’Enel dissemina di pale eoliche le colline del basso Sulcis, alla fine del 2011 l’Alcoa, nonostante i suoi 611 milioni di utile netto, annuncia la chiusura, mette in vendita la fabbrica sarda, concentra l’attività in Spagna e costruisce un nuovo stabilimento nel deserto Arabico, dove l’energia solare è quasi gratis. Nessuno si sogna di prendere nemmeno in considerazione l’idea di riconvertire l’alimentazione della fabbrica cambiando la materia prima, dalla bauxite all’alluminio usato – abbattendo il consumo energetico da 14 a 0,7 chilowattora per ogni chilo di materiale prodotto – e nell’ottobre del 2012 si spengono le luci, tutti i lavoratori vanno in cassa integrazione, qualcuno cerca un impiego nelle aziende agricole della zona piuttosto di essere parcheggiato nel nulla, per lo stabilimento si cerca un acquirente; “a monte” la Glencore chiude Eurallumina rimasta ormai senza il suo unico cliente, “a valle” l’ex Ila ha cessato di produrre laminati già nel 2009, tre anni dopo viene svenduta per un paio di milioni a un imprenditore sardo che promette di farla ripartire; invece rimane chiusa perché il nuovo padrone vuole anche lui le sue pale eoliche e farsi l’energia in casa ma, tra tanti mulini a vento dell’Enel lì a due passi, l’autorizzazione non arriva e i dipendenti restano in mobilità.
Nell’ex polo industriale del Sulcis rimane aperta solo la Portovesme srl: un migliaio di operai, gli ultimi ancora in attività, lavorano 250.000 tonnellate annue di “fumi d’acciaieria”, gli scarti dei materiali ferrosi trasformati in metallo dai forni elettrici, che finiscono via nave in quest’angolo di Sardegna per diventare zinco e ripartire, lasciando in dono 100.000 tonnellate di scorie che inquinano acqua, aria e finiscono accatastate in una delle vecchie miniere, quelle considerate troppo inquinanti e costose per rimanere aperte, troppo vuote e fredde per interessare uno studente o un turista. A Genna Luas, tra Iglesias e Carbonia, dove il futuro sembra riservare sempre e solo un interrogativo: come chiudere.
Fondavamo il metallo per trasformarlo negli oggetti di ogni giorno, nelle tante cose d’alluminio che tutti usano: domopack, contenitori alimentari, porte, finestre, cerchi per ruote d’automobili, aeroplani; fino ai motori della Ferrari. Di tutto. L’alluminio è l’acciaio del 2000, diventa molto resistente aggiungendoci titanio o silicio ma è molto più leggero. In fonderia fa molto caldo, sui 900 gradi il metallo, sui 50 gradi in officina. Si lavorava a ciclo continuo, per 1.400-1.500 euro mensili. Il materiale arrivava dalla sala di elettrolisi e noi lo trasformavamo in forme e leghe diverse; a seconda degli usi, in pani, billette, placche. I colatori stavano peggio di tutti, per la fatica e per il caldo. Un lavoro duro, con i turni, anche la notte. Ma ci si abitua. Perché altro qui non c’è.
Adesso meno che mai. La gran parte di noi è sui quarant’anni, troppo giovane per andare in pensione e troppo vecchia per iniziare un altro lavoro. Siamo tutti molto specializzati, chi fa il colatore non ha alcuna qualifica da mettere in un curriculum per un’altra ditta. Forse potrebbero prenderci all’Ilva di Taranto, anche se è diverso. Ma avrebbe senso? Così il nostro futuro è tutto in salita: operai professionali per il nostro stabilimento fuori da lì non siamo niente. L’alternativa è andare a fare le pizze in Romania, come ha fatto un nostro collega. Dobbiamo abbandonare mogli e figli? Molti qui hanno già pagato i costi dell’immigrazione, con i padri che lavoravano fuori perché qui non ce n’era. Non vogliamo ripetere la stessa storia. Adesso siamo in cassa integrazione, prendiamo sul 1.100 euro con la parte che ci mette l’azienda, cosa che finirà prima o poi. Ma non vogliamo aspettare e tirare a campare per i tre-quattro anni della Cig o andarcene da questa terra.
Noi vogliamo continuare a fare alluminio, con un nuovo padrone o nazionalizzando. Se c’è la volontà e la forza politica si può fare. Qui si produceva dell’ottimo alluminio, era la fabbrica più grande d’Europa quando è stata costruita. Quando il polo industriale è nato dalla chiusura delle miniere e Portovesme serviva a muovere l’economia del Sulcis. Adesso non c’è nessun piano B, nessuna prospettiva, perché abbiamo una classe dirigente che non ha la minima idea di cosa sia questo territorio e di cosa siano queste fabbriche.
Quando sono venuti qui i ministri del governo Monti, sono arrivati belli tranquilli, come fossero in gita, pensando di riempirci di parole per esporci un piano Sulcis dentro cui non c’era niente di concreto e prevedeva dei finanziamenti già stanziati e messi in bilancio dalla regione Sardegna: sono dovuti scappare via in elicottero. Com’era prevedibile, in un anno non è partito un solo progetto, neanche quelli minimi per l’ampliamento del porto.
Bisognava pensarci prima, si sapeva da anni che l’Alcoa voleva andarsene perché privilegiava lo stabilimento spagnolo, dove l’Endesa – di cui l’Enel è socia – vende l’energia a 30 euro, meno della metà del prezzo di mercato. E perché le multinazionali hanno deciso di chiudere alcune fabbriche – e l’Alcoa ha scelto noi – per far risalire il prezzo dell’alluminio che ora è sui 1.750 dollari il chilo, mentre ai tempi d’oro era sui 3.000 dollari: siamo l’agnello sacrificale dei prezzi di mercato. L’Alcoa non ha nessun interesse nemmeno a venderci, tanto lo sa che l’alluminio che si compera in Italia viene comunque dal suo stabilimento spagnolo: preferisce tenere chiuso qua, spendere un po’ di soldi in integrazioni o buonuscita e sperare che lo stato italiano le risolva il problema della chiusura.
Noi che dovremmo fare? aspettare la riconversione del territorio? puntare sul turismo? Non ci sono nemmeno gli alberghi o le strade, il porto qui davanti è unico per traghetti e navi metallifere, con i turisti diretti a Carloforte che si prendono pure loro tutte le polveri e con un fondale troppo basso per le navi da trasporto. E poi chi ci viene in Sardegna se arrivarci costa il doppio che andare a Sharm el Sheik?
Per tenerci buoni ci danno periodicamente delle camomille: ammortizzatori ai lavoratori quando fanno casino, promesse alle piccole imprese che qualcuno verrà a risolvere tutto. E poi tutti tranquilli a casa per un paio di mesi. Il tempo passa e non succede nulla. Avessero almeno palle di dircelo chiaro in faccia: “Non si può fare niente, andatevene”.
L’azienda ha offerto incentivi, un accordo vincola la proroga della cassa alle dimissioni del 15% dei dipendenti. Altrimenti si ridiscute tutto. Ma in pochissimi hanno accettato d’andarsene, perché con 20-30.000 euro non si fa nulla. L’unica possibilità che abbiamo è rimanere aggrappati qui, a questa fabbrica. Per 40 anni ha funzionato, dando lavoro e producendo ricchezza. Ha fatto guadagnare anche molto ai suoi padroni che ora dimostrano di poter fare ciò che vogliono, andarsene e imporlo allo stato. Che ora deve dimostrare di esistere, dare una risposta, risolvere il problema delle infrastrutture e dell’energia troppo cara. Spiegare alla stessa Europa che per l’alluminio e l’acciaio serve un intervento pubblico che metta questo stabilimento nelle stesse condizioni di partenza di quelli spagnoli o francesi. Serve per noi, ma anche per tutta l’area, per rimettere in moto l’economia che gira attorno all’Alcoa. La vita di 3.000 famiglie e tutta una filiera dipendono da una scelta politica precisa. Costosa ma che può garantire il futuro di un intero territorio. Così come è oggi è una lunga tortura, di cassa integrazione non si può vivere né morire.
Dietro la centrale Enel che va a scartamento ridotto perché di energia adesso a Portovesme ce n’è fin troppa, le grandi pale eoliche alimentano la rete nazionale a prezzi di mercato. Lungo la costa un mare rosso di fanghi di bauxite – gettati lì al ritmo di 1.500.000 tonnellate l’anno – ricorda che Taranto non è sola e rammenta l’altro problema che segna il destino della fabbrica messa in vendita dall’Alcoa, lo smaltimento dei rifiuti e il risanamento del terreno. Perché se il costo dell’energia è il motivo ufficiale che spinge al trasloco la multinazionale, ciò che la trattiene è il costo della bonifica che sarebbe a suo carico in mancanza di un acquirente che garantisca la ripresa dell’attività per almeno un paio d’anni accollandosene il futuro e ogni sua incombenza.
Così il gruppo di Pittsburgh è disposto a regalare la fabbrica e pagare le spese per il riavvio degli impianti, perderci un’ottantina di milioni che sono pur sempre un niente di fronte ai 2-300 che costerebbe la pulizia del territorio. Ma l’Alcoa non ha fretta, a differenza dei suoi ex dipendenti che vorrebbero essere ancora operai piuttosto che venire abbandonati nel limbo degli ammortizzatori sociali. La multinazionale americana, in attesa che un acquirente spunti da nulla, preferisce prender tempo e sperare che il problema sfumi via da solo: magari un lento oblio o un diversivo, una nuova mano pubblica che faccia per il polo industriale ciò che era stato fatto anni prima per le miniere, trovare un erede cui affidare la sopravvivenza del Sulcis.
Una nuova impresa da aprire o far aprire, anche un po’ più in là, nel Medio Campidano, a mezz’ora d’automobile, dove la famiglia Moratti pensa di trovare ed estrarre il metano; scombussolando un po’ la zona più fertile dell’isola, ma pazienza, in fondo non sarebbero altro che nuove buche in una terra dove s’è n’è sempre scavate tante in cambio di una promessa prosperità. Andando avanti così, fino a una nuova crisi di settore, a risorse che non sono più remunerative, lavori derubricati come antieconomici; pensando che alla fine i poveri si sappiano sempre adattare. Nell’unico bar di Portovesme il rumore più forte è quello di una slot machine.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito del Manifesto Sardo

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