Jobs act: un decreto da riformare

26 Marzo 2014 /

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di Luigi Mariucci
È singolare che chi mette in dubbio la bontà delle misure adottate dall’annunciato decreto legge sul lavoro sia tacciato di muovere da una opposizione pregiudiziale, se non ideologica. Vale invece l’inverso: è ideologico l’atteggiamento di chi si ostina a sostenere che la flessibilità purchessia comunque favorisce l’occupazione e la produttività. L’esperienza degli ultimi 15 anni di legislazione del lavoro dimostra il contrario: la flessibilità indiscriminata nel medio termine svilisce la qualità del lavoro, e quindi la qualità delle imprese e la loro competitività.
Si tratta quindi di dismettere, tutti, i paraocchi delle posizioni prese e delle idee fisse, e chiedersi quali siano i modi migliori per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani e di quei lavoratori maturi che il lavoro l’hanno perso e cercano un nuovo impiego. Tutto questo a prescindere naturalmente dalla evidenza del fatto che se non cresce la domanda di lavoro ogni disegno sulle regole è costruito sulla sabbia.
Da questo punto di vista, molto concreto e per nulla astratto, è davvero difficile concordare sull’idea che costituisca uno strumento utile a creare buona occupazione un lavoro a termine senza causale, cioè immotivato, prorogabile ad libitum -si dice- per 8 volte nell’arco di 3 anni, dopo i quali non è per nulla scontato che si arrivi a una assunzione definitiva, anzi è altamente probabile il contrario.

Intanto perché 36 mesi, e non 48 o 24? Dove sta la razionalità di questo limite temporale? Questo termine avrebbe un senso se al suo scadere vi fosse un obbligo di assunzione definitiva, il che non è e non può essere. Messo così il termine dei 36 mesi ha solo un contenuto negativo: consiste in realtà in un divieto di riassunzione, cui segue l’implicito incentivo ad assumere semmai un altro lavoratore a termine. Proprio uno di quei “divieti” che il ministro Poletti ha dichiarato di ritenere sbagliati.
Sembra perciò più razionale, se proprio si vuole abolire la causale, che tuttavia resta logicamente interna alla struttura del lavoro a termine, stabilire un limite al numero delle proroghe (perché 8 e non 3?) e soprattutto un limite minimo di durata al contratto a termine, se si vuole impedire che il lavoro a termine diventi uno spezzatino indigeribile, fatto di continui rinnovi a brevissima scadenza, mensile o addirittura settimanale.
Si può poi stabilire un termine finale, non ai fini però di un divieto di riassunzione, ma per incentivare la stabilizzazione, con robusti sgravi fiscali o contributivi, a partire dalla restituzione del contributo dell’1,4%. Tali incentivi vanno previsti inoltre in capo al lavoratore, proprio in termini di requisiti soggettivi ovvero di “dote” o “punteggio” per impedire che venendo assunti a termine da un altro datore di lavoro e non arrivando mai ai mitici 36 mesi la flessibilità si traduca in una interminabile lotteria e nel ghetto della precarietà a vita. Al tempo stesso occorre individuare un meccanismo con cui inibire il comportamento arbitrario o opportunistico del datore di lavoro che consumate le diverse proroghe ritenga più conveniente liberarsi di quel lavoratore e assumerne a termine un altro, potendo quindi ripartire da zero.
Un problema analogo si era posto per l’apprendistato ed era stato risolto dalla legge Fornero stabilendo che l’assunzione di nuovi apprendisti fosse condizionata alla conferma in servizio di almeno il 30% di quelli assunti in precedenza. Ma ora il decreto Renzi-Poletti abolisce anche questo modesto vincolo, come se fosse qui la causa del mancato decollo dell’apprendistato. In più, nella logica sfibrante dello stop and go vengono anche cancellati gli obblighi relativi alla formalizzazione del piano formativo individuale e alla formazione trasversale.
Il tutto, naturalmente, in nome della “semplificazione”, senza avvedersi del fatto che liberalizzando il contratto a termine e impoverendo il contenuto formativo dell’apprendistato questo per un verso viene cannibalizzato e per l’altro si svilisce, finendo con l’assomigliare a quei contratti di formazione-lavoro a suo tempo caduti sotto gli strali della Corte di giustizia europea per violazione della disciplina in materia di divieto di aiuti di stato. Cosicché si verificherebbe una ennesima eterogenesi dei fini, incentivando anziché riducendo il contenzioso.
Eppure in entrambi i casi, del lavoro a termine e dell’apprendistato, se in Italia le cose funzionassero decentemente non sarebbe difficile stabilire una normativa razionale, diretta ad inibire efficacemente il ricorso fraudolento ed abusivo a queste forme di assunzione. Invece che perpetuare uno schizofrenico pendolarismo tra divieti e lassismi basterebbe introdurre un obbligo di motivazione delle ragioni che effettivamente impediscono l’assunzione stabile dei lavoratori a termine, dopo un periodo adeguato di sperimentazione, e degli apprendisti, al termine della fase formativa, sulle quali effettuare un tempestivo controllo/verifica dei centri dell’impiego e dei servizi ispettivi in chiave di moral suasion.
Se avessimo servizi pubblici dell’impiego degni di questo nome, se su questo tema fossero adottati urgenti ed operativi provvedimenti, e non fosse invece varato un ennesimo disegno di legge delega, al quale seguiranno poi svariati decreti legislativi, quindi regolamenti attuativi, circolari ecc.ecc. Se, se… Vasto programma.
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano L’Unità il 19 marzo 2014

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