(Prima parte) di Domenico Perrotta
Ma il caporalato, lo sfruttamento e condizioni di vita indegne non sono più esclusive del Sud
A questo proposito non va dimenticato che a metà degli anni Novanta, nell’ambito delle liberalizzazioni del mercato del lavoro varate dall’allora governo di centrosinistra, anche il collocamento agricolo pubblico fu smantellato. Non che prima la situazione fosse rosea: le «commissioni comunali», in cui parte importante avevano i rappresentanti sindacali, erano spesso inefficienti o gestite in maniera clientelare. Tuttavia, proprio mentre i braccianti (e i caporali) stranieri stavano sostituendo gli italiani, quella legge cancellò i pochi strumenti utilizzabili in alternativa alla mediazione privata informale; contemporaneamente, nascevano le agenzie di lavoro temporaneo, che però nell’agricoltura meridionale non si sono mai diffuse.
I decreti flussi per lavoro stagionale, che dalla fine degli anni Novanta dovrebbero reclutare operai di origine straniera per i territori agricoli che ne hanno necessità, al Sud non sono stati gestiti in maniera efficiente e hanno piuttosto dato luogo a vari tipi di truffe nei confronti dei migranti e dello Stato. Laddove è possibile e conveniente, l’unica alternativa ai caporali sembra essere la meccanizzazione, ma non è raro che anche gli operai impiegati sulle macchine siano reclutati da caporali.
Infine, la crisi economica generale, che ha reso questo quadro ancora più drammatico. Se fino alla metà degli anni Duemila i ghetti delle campagne del Sud erano soprattutto luoghi di passaggio, in cui i migranti – soprattutto di origine africana – trascorrevano qualche anno di irregolarità in attesa di una sanatoria e dell’assunzione in qualche fabbrica lombarda, veneta o emiliana, negli ultimi anni questi percorsi sono molto più difficili (non a caso l’ultima regolarizzazione «di massa» è stata rappresentata dal decreto flussi «straordinario» del 2006).
Molti migranti fanno oggi il percorso inverso: gli operai che hanno perso il lavoro nel settore manifatturiero nelle regioni del Nord, così come i «figli dell’immigrazione» che, finite le scuole superiori sono alla difficile ricerca della prima occupazione, spesso si dirigono (o tornano) a Sud e si uniscono a coloro che sono appena arrivati dall’Africa, accrescendo la concorrenza tra braccianti. Le campagne del Mezzogiorno, insomma, diventano una sorta di grande camera di compensazione del mercato del lavoro, non solo agricolo e non solo meridionale, nella quale lavoratori precari e vulnerabili sono alla costante ricerca di qualche giornata di impiego e sopravvivono grazie alla solidarietà di parenti e connazionali, in attesa di occasioni migliori in altri settori e in altre regioni.
Ragionare sui diversi aspetti del problema può aiutare a capire come e perché questioni come quelle che si pongono in maniera così drammatica nel Mezzogiorno possano ripetersi anche in territori dove il caporalato sembrava sconfitto e le filiere agricole sembrano più solide.
L’effetto congiunto di fattori quali la presenza di una fascia di lavoratori particolarmente vulnerabile (i migranti), la liberalizzazione del mercato del lavoro e la necessità delle aziende agricole di comprimere i costi rischia infatti, soprattutto in periodo di crisi, di creare situazioni simili anche nelle regioni del Nord. Casi di caporalato sono stati segnalati negli anni scorsi in Romagna, per la raccolta della frutta, e nel mantovano, per i meloni; da alcuni anni i lavoratori africani che si recano a Saluzzo (Cuneo) per la raccolta della frutta danno vita a insediamenti non dissimili da quelli di Foggia e Rosarno. E sembra essersi diffuso l’utilizzo improprio della forma giuridica della cooperativa per fornire lavoratori a basso costo alle aziende agricole: mediatori non dissimili dai caporali ottengono in questo modo, attraverso subappalti più o meno legali, alcune mansioni del ciclo agricolo, soprattutto le raccolte. Avviene in Piemonte, per la vendemmia, e nel veronese, per il settore orticolo.
D’altro canto, focalizzare lo sguardo solo sull’Italia è fuorviante. I conflitti avvenuti negli anni scorsi a El Ejido in Andalusia, a Manolada in Grecia e nelle Bouches-du-Rhône in Francia ci mostrano come i lavoratori migranti impiegati in agricoltura siano in condizioni difficili un po’ in tutta Europa, sebbene con modalità differenti. Per non parlare dell’agricoltura californiana, che alcuni economisti e sociologi hanno individuato come il modello – fatto di agricoltura intensiva e ipersfruttamento dei migranti – cui si sta conformando l’agricoltura europea, soprattutto mediterranea.
Tenendo a mente tutti questi problemi, appare estremamente difficile capire come migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei migranti impiegati in agricoltura. È chiaro che le amministrazioni locali e regionali possono agire solo su alcuni aspetti della questione: sull’accoglienza e, in parte, sui centri per l’impiego e sul trasporto dei lavoratori nei campi (per cui si potrebbero utilizzare le «linee agricole» previste nei piani di bacino del trasporto pubblico), ma meno sulle politiche agricole e dell’immigrazione, che hanno invece un carattere nazionale ed europeo. È chiaro, inoltre, che i progetti che mirano a intervenire solo su un aspetto del problema, senza attaccare gli altri, rischiano di non avere gli effetti sperati: creare un centro di accoglienza senza trovare un’alternativa ai caporali per il trasporto sui campi, ad esempio, non servirà a molto; proporre alle aziende di assumere i braccianti tramite il centro per l’impiego non risolverà la situazione, se i lavoratori continueranno a vivere nei ghetti. E così via. Ma quali sono i soggetti che potrebbero proporre un cambiamento? Ci sono pratiche interessanti da studiare e, eventualmente, replicare?
La questione potrà vedere miglioramenti soltanto se saranno i braccianti a rivendicarli
Anzitutto, le organizzazioni sindacali, che sono in prima linea nel denunciare lo sfruttamento dei lavoratori agricoli: un’attività piena di contraddizioni, soprattutto perché non è accompagnata da una concreta e continua attività sindacale tra i braccianti nelle campagne, se non in pochissimi casi. Tuttavia, laddove vi siano dirigenti capaci, nascono quantomeno alcune proposte concrete, come quelle che mirano a rinvigorire il collocamento pubblico (ad esempio con le «liste di prenotazione» dei braccianti nei centri per l’impiego istituite dalla Regione Puglia dopo lo sciopero di Nardò e su pressione della Flai-Cgil, o il tentativo di un collocamento comunale a Eboli).
Quanto agli enti locali, a parte i centri di accoglienza istituiti qui e là, spesso per piccoli numeri di lavoratori e con grande spreco di denaro pubblico, è stata soprattutto la Regione Puglia a provare a contrastare, seppur con risultati limitatissimi, il lavoro nero, con la legge 28/2006 e gli «indici di congruità»: la Regione consente l’accesso ai finanziamenti regionali e comunitari solo alle aziende agricole che dimostrino di aver assunto in regola un numero di lavoratori commisurato alle colture dichiarate. Si tratta di un meccanismo di difficile attuazione ma che potrebbe rivelarsi utile.
Le esperienze forse più interessanti sono nate da coraggiose associazioni che operano talvolta nei territori più difficili del Mezzogiorno. A Nardò è stato attivo per due anni il centro di accoglienza «Masseria Boncuri», su iniziativa delle associazioni «Finis Terrae» e «Brigate di solidarietà attiva», nel tentativo di incrinare la segregazione in cui vivono i braccianti, fornire loro assistenza legale e medica e, al contempo, condurre una campagna contro il lavoro nero. Non è un caso che il più importante sciopero condotto da braccianti africani sia avvenuto qui, nell’agosto del 2011. E varie altre associazioni, di orientamento cattolico o di sinistra, hanno cercato di essere presenti nei ghetti dei braccianti africani, da San Severo (Foggia) a Venosa (Basilicata) a Rosarno.
Non sono pochi, poi, gli esempi di costruzione di filiere agricole corte ed «etiche»: gruppi di produttori di diversi territori del Sud praticano la vendita diretta di prodotti biologici e «senza sfruttamento» a gruppi di acquisto solidale (Gas) di tutta Italia. È particolarmente interessante l’esperienza condotta nella Piana di Gioia Tauro dall’associazione «Sos Rosarno» che, attraverso la vendita di agrumi ai Gas, cerca di unire le istanze dei piccoli contadini calabresi e dei braccianti migranti, facendo al contempo pressione sui marchi della grande distribuzione per ottenere trasparenza sui prezzi corrisposti alle aziende agricole. Al contempo, da più parti viene proposto, come pratica di pressione, il boicottaggio delle aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori.
In questo quadro, è mia opinione che la questione potrà vedere significativi miglioramenti soltanto se saranno i braccianti stessi a rivendicarli seriamente. Soltanto se, in altre parole, si svilupperà un forte movimento bracciantile che riesca a fare pressione su datori di lavoro, sindacati, enti locali, governo. La storia delle campagne italiane, dall’Emilia-Romagna alla Puglia alla Sicilia, infatti, insegna che le leggi che favoriscono i braccianti ottengono risultati solo se e quando le loro organizzazioni hanno la forza di imporne l’applicazione. I braccianti migranti sono tutt’altro che «schiavi», come talvolta vengono descritti: essi sono spesso consapevoli delle drammatiche condizioni in cui vivono e lavorano; dove possibile, essi mettono in atto piccoli conflitti nei luoghi di lavoro.
Tuttavia, questi conflitti raramente assumono dimensioni più ampie, come è successo a Rosarno e a Nardò (ma anche – con episodi minori – nel casertano, nella Piana del Sele, a Saluzzo). Questi lavoratori vivono segregati nelle campagne, non hanno organizzazioni che li rappresentano e sono troppo differenziati per nazionalità, status legale, strategie migratorie: difficile immaginare rivendicazioni unitarie, ad esempio, tra braccianti originari dell’Africa occidentale e della Romania, del Maghreb e del Punjab. Essi piuttosto progettano di fuggire dal Sud e dall’agricoltura non appena ne avranno la possibilità. Tuttavia, nelle campagne meridionali vi è un conflitto latente e, se la crisi economica peggiorerà, non potrà che scoppiare nuovamente.
Fine
Questo articolo è stato pubblicato su Il Mulino 1/14 il 25 febbraio 2014