di Angelica Erta
Vi ricordate la Spagna punta in materia di diritti civili, avanguardia d’Europa, quella in sostanza a cui strizzava l’occhio gran parte dell’esitante sinistra italiana? Oggi sembra non esistere più, e non solo perché alla guida c’è il premier del PP, Mariano Rajoy, ma perché da quella posizione – forse sarà la voglia di prendersi una rivincita – rischia di catapultare il Paese indietro di trent’anni.
In questi giorni il nemico dichiarato sembrano essere le donne, con un progetto di legge antiaborto significativamente denominata “Legge organica di protezione dei diritti del Concepito e della Donna in gravidanza”, approvato venerdì scorso dal governo che, vista la maggioranza di cui gode il PP in Parlamento, sembra destinato a riportare indietro le lancette del tempo. Da diritto, com’era concepito nella legge Zapatero del 2010, l’aborto torna ad essere reato, sebbene depenalizzato, e consentito in due circostanze, in caso di violenza sessuale o se sussistono gravi rischi per la salute fisica o psicologica della madre.
Gravi rischi che devono essere certificati, e motivati, da due specialisti diversi dal medico che eseguirà l’interruzione di gravidanza. Nel primo caso il termine scade alla dodicesima settimana, e solo se la violenza è stata denunciata, mentre nel secondo il limite è fissato a ventidue settimane. Le motivazioni dovranno essere addotte da specialisti della patologia, e dopo questa “valutazione” la donna riceverà le informazioni mediche adeguate e sarà costretta ad attendere altri setti giorni (oggi tre) prima di giungere a una decisione definitiva.
Forse anche la ricerca di un medico disponibile a praticare l’intervento si sarà convertita in una corsa a ostacoli, in parte come già succede in alcune regioni italiane, dato che è stata introdotta l’obiezione di coscienza per tutto il personale sanitario (dalla diagnosi all’intervento) e proibita la pubblicità di cliniche in cui si pratichi l’aborto. Altro elemento di forte dibattito è la scomparsa del comma in cui si dettagliava il diritto ad abortire in caso di malattie o malformazioni, ora integrato nel secondo punto e lasciato all’ambiguità; il diritto all’aborto sarebbe esteso oltre la ventiduesima settimana solo in caso di “anomalia del feto incompatibile con la vita”, di cui fosse stata impossibile una diagnosi previa.
Non vi è dubbio che agli strali lanciati da tempo dalle associazioni Pro vita abbia dato risposta l’attuale ministro della giustizia Alberto Ruiz Gallardón . Alle donne non rimane che un corpo espropriato, almeno per i novi mesi della gravidanza, in questa sorta di biopolitica in cui a decidere sono tutti fuorché le dirette interessate, dalle istituzioni, al sapere medico fino alla famiglia. Già, perché alle minorenni non basterà supplicare i sanitari di firmare il visto buono, indispensabile anche quello dei genitori, “chiamati a partecipare”. Controllare l’esuberanza di questi corpi è responsabilità della famiglia, come i loro peccati, da punire come dio comanda.
La legge che fa carta straccia della precedente si presenta finanche più restrittiva di quella in vigore dall’85 al 2010, di cui in parte ne ricalca l’impianto, facendo sbalzare la Spagna agli ultimi posti in un ipotetico rating dei paesi europei. E mentre le piazze si riempiono di collettivi femministi e dalla Giunta d’Andalusia, a marca Psoe, si cercano elementi di incostituzionalità a cui appigliarsi, dai partiti esterni alla maggioranza si moltiplicano gli appelli al voto segreto, alla coscienza delle singole parlamentari che forse si rifiuteranno di fare a pezzi la storia dei loro stessi diritti.
Dunque se la nuova legge sarà approvata in Parlamento (per l’entrata in vigore si dovrà aspettare circa un anno) sarà la scienza a tenere in ostaggio i corpi delle donne, ad emettere una sentenza di condanna o assoluzione quantizzando l’entità di colpa e desolazione. Quali saranno gli standard con cui stimare il grave rischio psicologico, a chi il potere di determinare la soglia fra il copione ben scritto di una storia lacrimevole e la sofferenza insopportabile? Di fronte ad una richiesta d’interruzione dove si fermerà il sapere medico, quando cederà lo scettro della decisione e si atterrà, semplicemente, a quest’amara richiesta? Saranno la disciplina medica, eletta a supremo giudice o piuttosto le convinzioni morali dei singoli operatori a dettare il verdetto finale, aprendo il baratro ad una discrezionalità pseudo scientifica in cui lo stato si arroga il diritto di decidere del destino delle sue suddite.
Forse il politically correct vorrebbe che s’insistesse sul dolore che comunque provoca il gesto dell’aborto, il senso di svuotamento che genera, la cicatrice che sempre lascia. Forse si dovrebbe aggiungere, come sempre si viene dicendo in questi casi, che non è mai una decisione facile, provvedendo alle disonorate una qualche attenuante. Ma così facendo forse non si coglierebbe nel segno, finendo per avvicinarsi alle posizioni di chi quella legge l’ha voluta. Il punto è che del corpo e della vita delle donne non sono né lo stato né le istituzioni mediche a dover decidere, che le scelte e il dolore che portano con sé è e deve rimanere privato e non setacciato da quattro occhi clinici per determinarne l’intensità e la legittimità. Si difende il ministro, dicendo di voler proteggere il nascituro, il più debole – che secondo la scienza a cui fa appello sarebbe più giusto chiamare embrione o feto – affermando che sono stati presi in considerazione tutti gli elementi, per cui la legge si collocherebbe nell’alveo costituzionale senza intaccare i diritti acquisiti. Ma il diritto all’aborto e i supposti diritti del nascituro sono semplicemente inconciliabili, quindi la scelta non può che appartenere alla donna, alla sua intelligenza e alla consapevolezza del proprio corpo, in cui quel feto, a dispetto di tutte le leggi e le dottrine scientifiche rimane custodito.