La casta, le caste, la castità, le castrazioni

18 Novembre 2013 /

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di Maurizio Matteuzzi, università di Bologna
Be’, adesso che non c’è più il quotidiano assalto del satrapo alla magistratura, in difesa dei suoi magari trascurabili vizietti e dei suoi cospicui interessi, finalmente possiamo dircelo fra di noi: i magistrati non sono simpatici. Intendiamoci: quando si parla di una categoria, non si parla mai del singolo: in ogni classe composta di, diciamo per stare nel sicuro, un centinaio di persone, si può statisticamente provare che esiste un onesto, un gay, un cretino, un ladro, ecc. Non è dunque questo il ragionamento.
Nel sentire popolare, che è poi quello che in definitiva fa opinione, ossia, ciò che ancora più conta, fa “voto”, le “toghe” sono le toghe, poco importano i dettagli. Distinguere dall’ermellino dell’inaugurazione dell’anno giudiziario le bardature per una laurea honoris causa è fatto sottile, improponibile a chi deve “tirare la cinghia”.
L’etimo di “casta” non è certo. La tesi prevalente fa derivare il termine dal latino “castum”, nel senso di “puro”, che ci giunge dal portoghese e dallo spagnolo “casta” come razza pura, non contaminata. Ottorino Pianigiani non dà per scontata questa soluzione, auspicando la scoperta di un collegamento con il sanscrito Khasta, come “limite” o “circoscrizione”. Probabilmente l’assimilazione della casta alla purezza gli ripugna.

Entro la società ci sono le caste, è un fatto. Prendiamo le telefonate della Cancellieri a favore di Giulia Ligresti. Ella adduce ragioni umanitarie. E la sorella di Cucchi fa sapere che forse, con un ministro così sensibile, suo fratello sarebbe vivo. Ne dubitiamo fortemente. Provi, se riesce, lei che non è della “casta”, a telefonare al Guadasigilli: se riesce a parlargli, ha perfettamente ragione. Se non fossero tutte tragedie, ci sarebbe dallo scoppiar dal ridere: la “casta”, qualsiasi sia l’etimo, per definizione non si contamina, non si mescola. Stia dunque tra i paria, e non ci provi nemmeno, suo fratello morirà, come di fatto è morto.
Le caste impregnano trasversalmente la nostra società. La casta dei magistrati, dei medici, dei notai, ecc. Ognuna con il suo ermellino, diverso nei colori ma analogo nel significato, un significato drasticamente escludente: tu dignus non es. Nemmeno il dialogo è consentito; sarebbe già una contaminazione, il contrarre un virus, un esporre la corporazione a un contagio.
E’ giusto, razionale, inevitabile questa stratificazione? Senza dubbio è un fatto empirico, di facile e comprovata evidenza.
Non molto tempo fa, ebbi occasione di scrivere al presidente dell’ordine dei magistrati della mia provincia, proponendo ospitalità accademica a quei magistrati che volessero incontrare i nostri studenti, per illustrare gli effetti della così detta “legge bavaglio”. Non ebbi risposta, non appartenevo alla stessa “casta”. Le consuete regole di educazione qui non valgono: un alto personaggio della casta di destinazione ha il diritto di essere maleducato, di fronte a un invito gentile; eccheccavolo!
Mi tocca dire una banalità. Non nel senso che non sia importante, ma nel senso che l’hanno già detta in tanti che c’è da vergognarsi a ribadirne l’ovvietà. Ed è questa: il fattore “tempo” non è una variabile indipendente. Prendo le mosse dalle dittature. Un dittatore non dice mai: “non si voterà mai più”, ma dice sempre “non ora, non è ancora il momento”. Il processo civile italiano richiama molto da vicino questo paradigma. Il punto non è tanto che, per sovraffollamento o per scarsità di risorse, o forse, mi sia permesso, per inefficienza, ci sia la coda. A questo siamo purtroppo abituati. Il fatto è che di solito una coda funziona così: tu attendi il tuo turno, ma poi risolvi il tuo problema, quale che sia. E il cittadino, almeno quello educato, fa appello alla sua santa pazienza.
Il processo civile, in Italia, non funziona così. Tu chiedi giustizia, e fai una prima coda. Viene la prima udienza. Tentativo di conciliazione. Le parti se ne guardano bene. Viene l’audizione delle parti. Ci si mette in prova, e dunque si determinano le testimonianze. E così via. Ad ogni passo, non è che si rimandi al giovedì dopo; gli avvocati guardano l’agenda, il magistrato guarda l’agenda, e si passa a due anni dopo. Ha senso? Chi si ricorderà cosa due anni dopo? Il magistrato, ad ogni ripresa, ha l’occhio vacuo: di che parlano costoro?
Un po’ di buon senso. Pazienza la coda iniziale; ma dopo, quandosi parte, non si potrebbe sviluppare il tutto in quindici giorni, entro il raggio della memoria normale di un essere umano? Non ho mai vissuto un processo negli USA, ma, dai telefilm che quotidianamente ci propanano, pare che là funzioni così. “L’udienza è aggiornata a venerdì alle 9”. Oppure: “le concedo 48 ore”. Chi ha mai sentito qualcosa del genere in un processo italiano? No, l’anno prossimo non si può, facciamo fra due anni. Se poi si aggiunge che spesso la materia del contendere sfugge completamente alla competenza del giudice, vedi i sempre più frequenti casi che riguardano le nuove tecnologie, lo scenario passa facilmente dal dramma alla farsa. Un po’ come in certi celebri processi con Totò e Peppino de Filippo. Ne ho vissuto uno fantastico, in Corte d’Assise, dove l’elemento decisivo fu stabilire se un router stava in Italia o fuori d’Italia. Mah.
Ignorantia legum non excusat, come è noto; ma ignorantia objecti magistratos excusat?

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