Potere e società in Cina: la questione uigura tra l'attentato di Pechino e la storia del Paese / 2

11 Novembre 2013 /

Condividi su

di Angela Pascucci
(Per leggere la prima parte dell’articolo)
Il conflitto è storia antica eppure Pechino non ha lesinato i finanziamenti per lo sviluppo della Regione autonoma uigura del Xinjiang (questo il nome ufficiale) soprattutto dalla fine degli anni ’90, quando viene lanciato il programma di sviluppo del “Grande Ovest”. La Regione ha sempre più per la Rpc un enorme valore strategico, ricca com’è di risorse energetiche e collocata in una posizione, nel cuore dell’Asia centrale, che la rende imprescindibile per tutte le rotte di comunicazione e di trasporto di gas e petrolio dal Medioriente e dalle regioni circostanti.
Per non parlare degli ambiziosi progetti di farne una punta di diamante dell’innovazione e dell’eccellenza tecnologica rivolta verso un’area economica e geopolitica che oggi più che mai costituisce una cerniera fondamentale fra Europa ed Asia. In questo teatro, anche solo l’ombra di una rivendicazione di indipendentismo manda in bestia Pechino che, sull’onda dell’11 settembre e della conseguente lotta al terrorismo, ha chiesto e ottenuto la messa al bando internazionale delle organizzazioni uigure che più minacciavano la sua presa sulla Regione all’estremo confine occidentale. Incluso il Movimento islamico per il Turkestan orientale oggi sotto accusa.
La questione del Xinjiang non gode della simpatia occidentale quanto, ad esempio, quella tibetana. L’abbattimento delle due torri, l’acuirsi della questione islamica non ne hanno migliorato l’attrazione ed è su questo terreno che Pechino pretende il sostegno internazionale, infuriandosi quando, come è accaduto nei giorni scorsi, invece di ricevere solidarietà i media internazionali mettono in dubbio la sua politica nella regione occidentale. (Ed effettivamente se le logiche che guidano la cosiddetta comunità internazionale sono quelle che oggi prevalgono, scardinando ulteriormente il mondo, dal suo punto di vista ha ragione a farlo).

Nella sostanza tuttavia la questione uigura non differisce poi di molto da quella tibetana, pur nella profonda differenza dei caratteri storici culturali religiosi e sociali che caratterizzano ciascuna popolazione. Il tormentato passato è per entrambe un campo di battaglia dove la Cina vincente ha preso tutto e sente di non dovere niente a nessuno. La politica di sviluppo cinese, con tutte le sue strade, gli aeroporti, gli investimenti, si è dimostrata devastante sia per i tibetani che per gli uiguri, un bulldozer che tutto spiana in nome dell’avanzata verso una ricchezza economica che di per sé dovrebbe risarcire la perdita di identità inevitabilmente indotta dalla “modernizzazione”.
I divieti contro le pratiche e i costumi dettati dalla religione hanno aggiunto benzina al fuoco, spingendo verso un arroccamento identitario. Intanto, le massicce migrazioni di cinesi, incoraggiate da sempre dalla Rpc, hanno ribaltato l’equilibrio demografico (oggi in alcune città del nord della regione, come la capitale Urumqi, gli han sarebbero in maggioranza) e messo a rischio la diversità, oltre a tutto provocando un visibile gap economico e sociale. Anche se il reddito medio è aumentato notevolmente (nel 2012 è cresciuto del 15% rispetto all’anno precedente, arrivando a poco meno di mille euro l’anno, comunque 20% in meno rispetto alla media nazionale), gli uiguri, culturalmente sfavoriti anche dalle politiche dell’istruzione, sono discriminati nelle assunzioni e hanno redditi mediamente inferiori agli han.
Al dunque uno sviluppo squilibrato, sconvolgente (ha fatto scalpore il “rinnovamento” snaturante della città vecchia di Kashgar), foriero di ulteriori di squilibri, percepito come al servizio degli interessi di un unico gruppo etnico, e dunque destinato ad inasprire gli animi e a perpetuare il ciclo perverso rivolta-repressione-rivolta, oggi potenziato dalla tracimazione terroristica.
Difficile e travagliato, l’equilibrio che per millenni ha legato il centro dell’immenso “Paese di Mezzo” ai suoi confini lontani, porosi e stranieri è un compito immane consegnato dal ‘900 alla Repubblica, prima nazionalista e poi popolare, cinese che ha dovuto creare uno stato moderno in grado di governare un’estensione territoriale multietnica (sono 55 le etnie cinesi), plurireligiosa e multiculturale, unica al mondo per ampiezza e complessità. La Cina, che si avvia a diventare la prima economia mondiale e sta assumendo le sembianze di grande potenza, non potrà sfuggire a questa sfida e non potrà sempre accusare le “interferenze esterne” di minacciare la sua integrità territoriale allo scopo di bloccare la sua ascesa.
Non che le interferenze non ci siano e non lavorino nell’ombra ma sta alla leadership cinese bagnare con lungimiranza le polveri che minacciano di far saltare i suoi equilibri. E vale per il Xinjiang quello che uno dei più acuti intellettuali cinesi, Wang Hui, ha affermato riguardo alla questione tibetana, vista nella sua deriva come un “riflesso della crisi generalizzata che la Cina sta vivendo all’interno del processo di mercantilizzazione e globalizzazione”.
Gli uomini che si sono insediati ai vertici della Rpc nel novembre del 2012 si dichiarano consapevoli di dover sciogliere, se non tagliare, molti dei nodi che rischiano di soffocare il paese. Il prossimo Terzo Plenum del Partito viene annunciato come decisivo in questo senso. Si parla di una svolta epocale, di riforme paragonabili a quelle lanciate dal Terzo Plenum che nel 1978 costituì il big bang della nuova Cina. In effetti le anticipazioni prefigurano grandi scardinamenti in tutti i settori: finanza, mercato del lavoro, diritti di proprietà della terra, welfare, fisco, rapporti fra compagnie pubbliche e private, tutto in un’orbita che si preannuncia di ulteriori aperture e foriera di grandi cambiamenti sociali, nelle città come nelle campagne. Un’overdose dagli effetti deflagranti, se cambierà tutto per non cambiare niente.
Fonti e bibliografia

  • New York Times. Philip Potter on the Growing Risk of Terrorism in China, 31/10/2013
  • South China Morning Post, Beijing says Uygur militants behind suspected Tiananmen terrorist attack, 01/11/2013
  • Bbc, Q&A: East Turkestan Islamic Movement, 01/11/2013
  • Christian Science Monitor, “What the Tiananmen Square attack reveals about China’s security state” 01/11/2013
  • Agence France Presse, “China state media says Tiananmen attack cost $6,500” 02/11/2013
  • Reuters “In China’s Xinjiang, poverty, exclusion are greater threat than Islam”, 03/11/2013
  • The Economist, “Security in Xinjiang.Tightening the screws” 04/11/2013
  • China Daily, Reform roadmap before key meeting, 04/11/2013
  • Caixin, “State Council Think Tank proposes “383 plan” for Reform” 28/10/2013
  • Wang Hui, La questione tibetana tra est e ovest, Manifestolibri 2011
  • Minorités, cette Chine qu’on ne saurait voir, Monde Chinois n. 21, printemps 2010

Angela Pascucci sarà a Bologna il prossimo 22 novembre per presentare il suo libro Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati