di Angela Pascucci
Non si erano ancora spenti gli echi dell’attentato a piazza Tiananmen quando, mercoledì 7 novembre nell’ora di punta mattutina, una serie di ordigni è esplosa a distanza ravvicinata nei pressi della sede del Partito comunista provinciale di Taiyuan, la città più popolosa della provincia settentrionale dello Shanxi (250 miglia a sud ovest di Pechino). Un morto e otto feriti il primo, forse approssimativo, bilancio delle vittime. Pare che le bombe fossero collocate dentro alcune fioriere ai lati della via su cui si trova l’edificio governativo e fossero di fattura rudimentale, a giudicare delle sfere di metallo e dai chiodi proiettati tutt’intorno dalle deflagrazioni.
Una ventina di auto parcheggiate davanti alla sede del Pcc sono rimaste seriamente danneggiate dagli ordigni che secondo alcune testimonianze sarebbero stati almeno sette. Nulla si sa ancora, né degli autori né delle motivazioni. Ma un articolo del quotidiano inglese The Telegraph riportava giovedì le testimonianze anonime di alcuni abitanti che parlano di continue proteste, piccole e grandi, davanti al simbolico edificio. A Taiyuan si registra una diseguaglianza dei redditi fra le più alte del paese e il quotidiano britannico parla dell'”oscena ricchezza” esibita dai tycoon del carbone della zona, mentre pare abbiano suscitato enorme rabbia le demolizioni ordinate dal nuovo sindaco per costruire un’autostrada.
Se questo è il combustibile che ha acceso la rabbia probabilmente poco altro si saprà ancora di questo nuovo, inquietante attacco diretto con tutta evidenza a un simbolo del potere. Invece l’attentato che il 28 ottobre scorso ha sconvolto Tiananmen, la piazza più simbolica e sorvegliata della Cina, provocando la morte di 5 persone e ferendone una quarantina, non ha più misteri per le autorità cinesi, arrivate in meno di una settimana a queste conclusioni: sul suv Mercedes andato a schiantarsi e incendiarsi contro le transenne della via pedonale sotto il ritratto di Mao, all’ingresso della Città proibita, c’erano tre attentatori uiguri in singolare formazione familiare, un uomo, sua moglie e sua madre, tutti morti nello schianto, tutti originari della provincia in ebollizione del Xinjiang; il commando arrivato da alcuni giorni a Pechino dalla lontana regione ai confini nord occidentali del paese era in realtà composto da otto persone, cinque delle quali hanno lasciato la capitale prima dell’attentato, ma sono state in seguito arrestate nel loro luogo di origine, la città di Hotan, nel sud a maggioranza uigura della provincia; il Movimento islamico del Turkestan orientale è l’organizzazione terroristica maggiormente sospettata di aver istigato l’attacco ai luoghi simbolo del potere cinese (a fianco della città proibita si trova Zhongnanhai, la cittadella dove vivono i vertici del partito e dello stato, e sulla piazza, che ha al suo centro il mausoleo di Mao, si affaccia anche la sede dell’Assemblea nazionale del popolo).
Di fatto nessun gruppo ha rivendicato l’attentato e il movimento degli uiguri in esilio, il World Uyghur Congress, ha smentito ogni coinvolgimento dell’etnia, accusando la Repubblica popolare (Rpc) di cercare pretesti per reprimere ulteriormente la popolazione uigura. Ma le autorità cinesi sono state prodighe di particolari, a dimostrare l’accuratezza delle indagini e la correttezza della loro ipotesi: sul veicolo sono stati ritrovati numerosi coltelli, l’incendio è stato innescato da 400 litri di benzina caricati sul suv che recava una bandierina bianca con scritte nere di “contenuto religioso estremista”. Scoperto persino il costo dell’operazione: 6600 dollari.
Fornire simili elementi (alcuni dei quali caratterizzano altri attacchi uiguri) pare cozzare con l’atteggiamento censorio e riluttante a dare informazioni da parte delle autorità subito dopo l’attacco. La scena del crimine è stata ripulita e sgombrata a tempo di record mentre editti precisi venivano emanati affinché i media ufficiali riportassero la notizia in tono minore, le immagini dell’attacco fossero rimosse e sui social network fosse arginata la discussione sul caso stroncando qualunque interpretazione contrastante con quella ufficiale. Una paranoia dettata certo anche dalla circostanza che questo “attacco al cuore profondo della nazione”, come l’ha definito un editoriale dell’ufficiale China Daily, sia avvenuto a ridosso del Terzo Plenum del Partito comunista, che si aprirà il prossimo 9 novembre e che si preannuncia come un appuntamento politico cruciale per il Pcc ed il paese in ragione delle vaste e radicali riforme economiche preannunciate.
La diffusione dei dettagli e la rapida chiusura del caso non contrastano però con la complessiva opacità. Restano infatti i dubbi che sempre aleggiano quando la versione di un accadimento violento e senza precedenti è solo quella ufficiale e viene impedito di ribattere o indagare su un’ipotesi diversa. Lo dimostrano gli interrogativi circolati nel magma della rete (dove ormai navigano quasi 600 milioni di cinesi) nonostante i tentativi di tenerlo a freno. E c’è persino chi ha ipotizzato che in realtà, per le sue caratteristiche, quel falò di lamiere e corpi sotto il ritratto di Mao avrebbe potuto anche essere l’azione di cinesi esasperati (che quando decidono di passare all’azione individuale sanno essere devastanti, come la cronaca dimostra).
Restando tuttavia alla versione ufficiale, l’attentato di marca uigura appare comunque un gesto disperato piuttosto che il piano di un’organizzazione feroce e ben rodata. Lo rivela la formazione familiare del terzetto, le armi al di sotto dello standard di ogni terrorismo che si voglia tale, gli stessi danni inflitti (con tutto il rispetto per le due vittime innocenti ed i feriti). Basti pensare alla ferocia dell’attentato di Boston, per avere una recente pietra di paragone.
Ma cosa segnala quel livello rudimentale coniugato con tanta determinazione suicida? Intanto che la questione degli uiguri, popolazione turcofona appartenente all’islam sunnita di rito hanafita, che con il 45% della popolazione costituisce la comunità più numerosa del Xinjiang dalle molte etnie (nove), si sta esasperando anche a livello individuale e cambia modalità d’azione. Tanto che, nonostante i mezzi rudimentali di cui dispone, arriva a toccare il cuore del potere, finora combattuto solo in Xinjiang. Uno smacco per l’apparato di sicurezza interno, il cui budget (oltre 100 miliardi di euro) supera da tre anni quello delle spese militari. Da qui anche il nervosismo dei vertici.
L’ultimo atto terroristico, avvenuto nel Xinjiang lo scorso giugno nella contea settentrionale di Shanshan, aveva fatto 35 morti con un attacco all’arma bianca a una stazione di polizia da parte di un commando di uiguri, ed era stato l’episodio più sanguinoso dopo la rivolta che nel luglio del 2009 aveva messo a ferro e fuoco la capitale Urumqi, dove negli scontri erano morte 200 persone, in maggioranza di etnia han (cioè cinesi). Fra giugno e agosto sono state arrestate nella Regione autonoma 139 persone accusate di “diffondere l’estremismo religioso, inclusa la jihad” mentre il controllo e la repressione si sono ulteriormente estesi. Per un uiguro, uscire dalle proprie zone di residenza all’interno della Regione autonoma è oggi sempre più difficile. Da qui anche, dicono gli esperti, la costituzione di una rete di resistenza frammentata e scollegata, che comunica solo in modo diretto, evitando i network della rete per evitare intercettazioni. Quanto poi un simile fenomeno possa essere infiltrato da un’entità jihadista esterna più pericolosa è minaccia adombrata dal governo cinese che non sembra finora avere riscontro. Per i media ufficiali cinesi, peraltro, militanti uiguri starebbero combattendo in Siria contro il regime di Bashar al Assad.
Fonti e bibliografia
- New York Times. Philip Potter on the Growing Risk of Terrorism in China, 31/10/2013
- South China Morning Post, Beijing says Uygur militants behind suspected Tiananmen terrorist attack, 01/11/2013
- Bbc, Q&A: East Turkestan Islamic Movement, 01/11/2013
- Christian Science Monitor, “What the Tiananmen Square attack reveals about China’s security state” 01/11/2013
- Agence France Presse, “China state media says Tiananmen attack cost $6,500” 02/11/2013
- Reuters “In China’s Xinjiang, poverty, exclusion are greater threat than Islam”, 03/11/2013
- The Economist, “Security in Xinjiang.Tightening the screws” 04/11/2013
- China Daily, Reform roadmap before key meeting, 04/11/2013
- Caixin, “State Council Think Tank proposes “383 plan” for Reform” 28/10/2013
- Wang Hui, La questione tibetana tra est e ovest, Manifestolibri 2011
- Minorités, cette Chine qu’on ne saurait voir, Monde Chinois n. 21, printemps 2010
Angela Pascucci sarà a Bologna il prossimo 22 novembre per presentare il suo libro Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione