di Sergio Caserta e Leonarda Martino
Il presidente Giorgio Napolitano, mercoledì al convegno dell’ANCI, si è prodotto in un’infervorata dissertazione sulle riforme istituzionali e costituzionali. Le sue convinzioni non sono certo un segreto, ma mai si era espresso in modo così netto, di parte, per un progetto che ha una caratterizzazione fortemente e inequivocamente presidenzialista, anche se è stato ben attento a evitare di pronunciare la parola.
Tutta l’enfasi del suo alto intervento è stata posta sull’esaltazione del ruolo dei sindaci disegnato dalla legge del ’93 che, non a caso, ha attribuito loro, oltre all’elezione diretta, un enorme potere di nomina e revoca del proprio esecutivo con l’arma formidabile dello scioglimento del consiglio in caso di voto di sfiducia su delibere importanti, come quella sul bilancio ma non solo.
Finora non è stata condotta alcuna seria indagine sul grado di consenso e convincimento conseguito tra i cittadini da questo tipo di riforma che certamente ha ridimensionato seccamente il ruolo dell’assemblea elettiva, il consiglio comunale, che non ha di fatto più alcun ruolo significativo. L’altro tema sul quale il Presidente ha elevato i toni, è stato quello delle riforme costituzionali, svolgendolo come un’accusa contro coloro che “remano contro”, i conservatori che vorrebbero mantenere l’attuale, inefficiente, sistema, per preservare – è evidente – le posizioni di potere attuali: nessun riferimento da parte del presidente alle recenti manifestazioni, in particolare quella di Roma del 12 ottobre (ma anche quella del 2 giugno a Bologna) che hanno registrato grande partecipazione di cittadini e qualificate presenze di esimi costituzionalisti che hanno espresso molte riserve sulle linee del progetto.
Napolitano ha ancora una volta espresso la gravità della situazione delle carceri e la priorità assoluta di affrontarlo e infine l’esigenza altrettanto urgente della nuova legge elettorale, ma con un tono meno drammatico. Tuttavia quel che non convince dell’impianto proposto dal presidente, è l’incongruenza di voler realizzare un progetto di rafforzamento dei poteri esecutivi – fino all’elezione diretta del capo dello Stato come capo del governo – senza far alcun riferimento ai contrappesi che in qualunque sistema di questo tipo controbilanciano il potere del presidente.
Inoltre, e non meno importante del primo rilievo, come si fa a concepire una riforma di questo genere senza una riforma preliminare del sistema dei partiti che oggi non brillano certo per trasparenza, rispetto delle regole e democrazia? La mancata revisione dell’articolo 49 è lì come un totem a rappresentare la nostra zoppa democrazia, se è vero che partiti personali come PdL e M5S, dai forti connotati leaderistici e populistici con questa riforma possono conquistare un potere ancora più forte.
Tre giorni fa il ddl costituzionale – che contiene la modifica dell’articolo 138 della Carta – è passato al Senato con i voti sottobanco della Lega, ciò che permetterà, se la Camera farà lo stesso, di evitare il referendum confermativo: non è un buon inizio. C’è seriamente di che preoccuparsi, così come per la non proprio rituale convocazione della sola maggioranza, è molto evidente che il sempre più debole assetto della “larghe intese”, non risponde minimamente a un’agenda di riforme che vorrebbe essere di elevata capacità realizzativa, da parte del suo massimo ispiratore.