Quis custodiat custodes? Alla ricerca della culla del malaffare

25 Ottobre 2013 /

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La giustizia - Foto di Valentin Likyov
La giustizia - Foto di Valentin Likyov
di Maurizio Matteuzzi, università di Bologna
Leggo in un articolo di Giuliano Foschini, La Repubblica 20 ottobre, relativo ai “concorsi truccati”, che “Onida e Cheli offendono i pm”. E che, udite udite, l’inchiesta criticata dai suddetti riguarderebbe “alcune sentenze pilotate al Tar di Bari”. Ma come, non era l’università il luogo del malaffare? Che c’entrano le sentenze? Ma allora, direbbe Shakespeare, non c’è del marcio solo in Danimarca; anche in Olanda non è che si stia meglio, vien da dire.
Ma il punto che viene in mente è: se ci sono stati pasticci nelle università, giudicano i magistrati. Se poi ci sono stati pasticci al Tar, cioè se l’attore è un magistrato, chi giudica? Ancora magistrati. Non quadra, non quaglia.
Che i magistrati abbiano un supremo organo di giudizio, il Csm, pare una ovvietà, nella visione moderna della divisione dei poteri. Certo, chi, se non un uomo di legge, può verificare se la legge è stata applicata? Chi ne sa di più, di legge, dei giuristi? E’ dunque più che legittimo che la magistratura nel suo complesso si doti di un organo supremo di autogoverno, o autocontrollo. Fin qui torna. Ma poi viene un altro problema. Chi ne sa di più di filologia romanza, se non un accademico di filologia romanza?

Giudicare nel merito della cultura, in questo periodo tutto preso da un furore demoniaco per la valutazione, pone un problema del tutto analogo a quello dei magistrati. Io posso supporre di far giudicare la congruità di una valutazione “scientifica”, o “culturale”, da chi ricopre una posizione di grado più elevato entro lo stesso ambito. Ma quando si arriva al livello dell’università, come si fa? In teoria, almeno, dovremmo essere al livello massimo della competenza.
Allora, volendo banalmente percorrere una analogia, anche l’accademia dovrebbe avere un suo organo supremo di autogoverno, in grado di censurare eventuali comportamenti scorretti. A maggior ragione, in forza di quell’articolo 33 della Costituzione che garantisce l'”autonomia” alle università, e che dopo la mitica legge 240/10 (Gelmini) sembra fatuo vaniloquio. Viceversa, sono di nuovo i magistrati a “giudicare”. Sempre in teoria, essi non entrano nel merito della competenza in gioco, ma giudicano la corretta applicazione dei criteri puramente “formali”.
Ecco che un concorso, in Italia, si trasforma nell’abilità di compilare in modo bizantino una gran quantità di verbali, ovvi, nulladicenti, e puramente burocratici. Verbale della seduta preliminare, dove si “fissano i criteri di giudizio dei candidati”, verbale della analisi dei titoli, eccetera. Le segreterie hanno i prestampati, pensati per esorcizzare ogni possibile ricorso al Tar. Ci si arrabatta, analizzare davvero quel che un candidato ha scritto, o quanto vale, diventa l’ultimo dei problemi. Siamo tre commissari, poniamo, e siamo tutti d’accordo che il più meritevole è il dottor Rossi. Si potrebbe fare tutto in mezz’ora. Ma invece no, ci vogliono giorni interi. A fare cosa, a leggere gli scritti, a valuTare i curricula? Ma no, a compilare i verbali, naturalmente.
Uno dice: ma dopo così sto tranquillo. Ma certamente no. Ci sono quelli che hanno depositato il nome dei vincitori presso un notaio, prima del concorso. Ci sono le intercettazioni telefoniche. C’è, insomma, tutto l’italico genio nel pieno del suo splendore. E dunque inchiesta sia.
C’è da dire che alcune cose non aiutano:

  • una legge farraginosa, mal pensata e mal scritta, come la 240/10, di cui l’unico connotato chiaro è l’intento baronale, verticistico e fascista; una legge iperdeterminata, che oltraggia l’autonomia dell’università oltre che il buon senso, nel definire la “governance” (cfr. art. 2), da un lato, e che dall’altro rimanda quasi ogni altra questione essenziale ad una sequela infinita di decreti attuativi;
  • un organo di valutazione di nomina governativa, l’ANVUR, come non si era visto nemmeno ai gloriosi tempi del MinCulPop, che esercita la più esecrabile creatività nell’invenTare criteri spesso risibili e persino contraddittori, che imbavaglia, magari inconsapevolmente (secondo il rasoio di Hanlon: never attribute to malice that which can be adequately explained by stupidity, mai presumere cattiveria dove a spiegare il fenomeno basta la stupidità) la vera cultura entro il perimetro del monopolio dei grandi editori;
  • una specie di società rosacrociana, né pubblica né privata, la CRUI, club dei magnifici rettori, assurti a rango di monarca assoluto con la succitata legge, che pratica la più totale delle ipocrisie, lanciando di tanto in tanto fulmini e saette contro il ministro, e ponendosi prona in ogni circostanza essenziale;
  • una pletora di alti papaveri del ministero, di dubbia qualificazione scientifica ma di enorme potere, che incidono sulle politiche culturali di una intera nazione, in base al centralismo autoriTario introdotto ex lege (e non diciam più quale).

E qui mi fermo solo per ragioni di spazio.
Ma non sarebbe semplice, e logico, che, in analogia al Csm, anche per il mondo accademico fosse un organo trasparente ed elettivo come il CUN a giudicare della congruità dei concorsi? Sappiamo bene quali mali possa indurre l’influenza degli altri poteri su quello giudiziario, l’abbiamo sperimentato nel ventennio. Situazione terribile, fine della democrazia. Ma perché allora dovremmo trovare accettabile che gente non del mestiere giudichi dei concorsi accademici? E, di conseguenza, del futuro sviluppo culturale, al livello più alto, del Paese?

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