di Maurizio Matteuzzi
Chissà se la strepitosa vittoria della Seleção verde-oro sulla Spagna nella finale di domenica scorsa al Maracanã di Rio de Janeiro, segnerà anche il riflusso di quell’ondata o lo spegnimento di quell’incendio che per due settimane hanno sconvolto il Brasile e attirato l’attenzione del mondo esterno molto più del calcio. Ma come è potuto succedere che il Brasile sia finito in prima pagina per ragioni che non avrebbe mai immaginato e che l’accomunano, se non proprio alle “Primavere arabe” e alla Piazza Tahrir del Cairo, certamente agli “indignados” della Puerta del Sol a Madrid, agli “Occupy Wall Street” di Zuccotti Park a New York, agli occupanti della piazza Taksim di Istanbul?
Dopo gli otto anni di Lula, in cui “il gigante dormiente” dell’America Latina si era finalmente risvegliato, con l’elezione di Dilma Rousseff alla presidenza nel 2010 il Brasile sembrava deciso di accelerare i tempi: l’America Latina ormai gli stava stretta e le sue ambizioni erano di convertirsi in un “global player” .
Un status sancito da eventi e dati, che Boaventura de Sousa Santos, il sociologo portoghese fra i guru del Forum Sociale Mondiale, elenca così: la conferenza dell’Onu sull’ambiente a Rio de Janeiro nel 2012; i mondiali di calcio nel 2014 e le olimpiadi di Rio nel 2016; la candidatura a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza; il protagonismo attivo fra le economie emergenti dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica); la nomina di José Graziano da Silva alla direzione generale della FAO nel 2012 e di Roberto Azevedo alla direzione generale del WTO nel 2013; l’aggressiva politica di sfruttamento delle risorse naturali; l’ impulso senza riserve alla agro-industria, specialmente per la produzione di soja, agro-combustibili e bestiame.
Grazie a Lula e alle sue politiche di inclusione sociale, dice ancora Boaventrura, “questo Brasile desarrollista si è imposto al mondo come una potenza di tipo nuovo, benevola e inclusiva”. Per questo la sorpresa è stata enorme nel vedere centinaia di migliaia di persone, soprattutto i giovani dei social network, riversarsi nelle strade di tutte le principali città brasiliane, pronte a fronteggiare la nota brutalità assassina della polizia. Come per la protesta in Turchia – l’opposizione al taglio degli alberi nel parco Gezi di Istanbul – anche in Brasile la miccia è stata innescata da un caso “minore” – l’aumento di 20 cents di real, più o meno 7 cents di euro, del biglietto dei trasporti urbani di San Paolo. Ma mentre in Turchia la lettura dello scontro fra le “due Turchie” è stata fin troppo immediata, in Brasile non è così semplice trovare l’altra faccia.
Fino al momento dell’insediamento di Lula al palazzo di Planalto, l’1 gennaio 2003, sarebbe stato più facile: allora l’immagine del Brasile era quella di un “Belindia”, un paese piccolo e ricco come il Belgio, dentro un paese grandissimo e miserabile come l’India. Questo paese immaginario non c’è più. C’è il Brasile “modello lulista”: inclusione sociale ed economica (il famoso programma Borsa Famiglia che ha strappato alla povertà e all’esclusione dai 30 ai 50 dei 200 milioni di brasiliani, il piccolo credito, il consumo, la scolarizzazione, l’occupazione…) e altissimi profitti delle banche; aumento del salario minimo e arricchimento sfacciato al vertice della piramide; niente riforma agraria per cui si battono da anni i Senza Terra e ogni sorta di incentivo per l’agro-business mono-colturale e ogm. E a livello politico, la capacità straordinaria di Lula (meno di Dilma) di mettere insieme alleanze di governo spurie, necessarie per garantire la governabilità ma inevitabilmente destinate ad alimentare il mercato della politica, quindi la corruzione.
La mobilitazione di giugno ha messo allo scoperto l’esistenza dell’ “altro Brasile”, che nonostante i progressisti Lula, Dilma e Partido dos Trabalhadores c’ è ancora. E che, con le loro spese folli, la coppa di adesso, i mondiali del 2014 e le olimpiadi del 2016 hanno riportato alla luce del sole. Cosa chiede in fondo l’altro Brasile? Semplice: migliori trasporti urbani, migliori scuole pubbliche, migliori ospedali pubblici, migliore assistenza sociale, polizia meno assassina, corruzione meno sfacciata fra i politici e al vertice. Le semplici cose che cambiano la vita. E che i 30 miliardi di reais (più o meno 10 miliardi di euro) che alla fine, con ogni probabilità, costeranno i mondiali di calcio, avrebbero potuto migliorare e finanziare. Demagogia? Populismo? Forse, ma come si leggeva nel cartello di un dimostrante : “Tuo figlio è malato? Portalo al Maracanã”.
In realtà questa esplosione di rabbia popolare costituisce una opportunità e uno stimolo straordinari per il governo di Dilma avendo messo a nudo i limiti strutturali del “lulismo”- giustizia sociale in un format sostanzialmente neo-liberista e desarrollista senza remore – che l’arrivo della crisi globale anche in Brasile ha reso evidenti e accentuato (una crescita media del 7-8% nei due mandati di Lula, crescita dello 0.9% nel ’12 e un misero 2.5% previsto per quest’anno, con l’inflazione al 6.5%).
La poco carismatica e troppo tecnocratica Dilma ha respinto la tentazione della chiusura e della forza, dicendosi pronta all’ascolto della “voce del paese” e alle riforme – una riforma fiscale di cui si parla da 25 anni, una riforma politica sempre bloccata dal Congresso, un referendum su un’assemblea costituente per riformare la costituzione del 1988, investimenti nei trasporti urbani per 50 miliardi di reais (16-17 miliardi di euro), investimento di “tutte” le royalities che verranno dai ricchi giacimenti di petrolio nell’Atlantico per sanità e istruzione, addirittura l’arrivo di migliaia di medici stranieri per colmare il gap della sanità pubblica (export di medici cubani anche in Brasile?).
Troppa roba. Ma in Brasile sono tutti consapevoli (non solo il governo PT), ora, di essere seduti sull’orlo di un vulcano in eruzione. In un sondaggio pubblicato il 30 giugno, Dilma è precipitata, nella intenzioni di voto per le elezioni dell’ottobre 2014, dal 51% al 30%. Caduta inevitabile. Ma ha lo stimolo e l’opportunità per riprendersi , e, nel caso continui a cadere, c’è sempre la carta di riserva: Lula da Silva, che molte voci danno disponibile al grande ritorno.
I prossimi giorni, i prossimi mesi chiariranno le cose e diranno se qualcuno – e chi – sarà in grado di gettare un ponte sull’abisso fra il paradiso dei numeri e l’inferno della vita quotidiana della maggioranza dei brasiliani.