Rappresentanza: un accordo non fa primavera

21 Giugno 2013 /

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di Umberto Romagnoli, giuslavorista
Confesso che non ci credevo più. Non credevo che il contratto nazionale potesse risollevarsi e, come Lazzaro, riprendere a camminare. Mi aveva spinto a rassegnarmi l’intonazione della formula adottata nell’art. 8 del decreto governativo (poi convertito in legge) del 13 agosto 2011; un’intonazione che mi sembrò subito di poter definire gladiatoria in ragione tanto della latitudine della derogabilità degli standard protettivi, da quelli fissati nei contratti nazionali a quelli legislativi, ad opera della contrattazione collettiva di prossimità quanto dell’estremizzazione dalla logica economicistica.
Ma ciò che mi aveva più impressionato era il fatto che la radicalizzazione di un corporativismo esasperatamente aziendalizzato, in una con l’indebolimento del ruolo del contratto nazionale e, in prospettiva, la balcanizzazione delle relazioni sindacali, assumesse come modello di riferimento l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Per 3/4 questa intesa riguardava la contrattazione aziendale (soggetti ed efficacia) e ne enfatizzava la centralità nella misura in cui le attribuiva la potestà di derogare alla contrattazione nazionale anche se ivi non prevista.
Da tempo, insomma, con una risolutezza che non ha precedenti, parti sociali e legislatore mandavano segnali di convergenza sulla necessità di emancipare il decentramento contrattuale da vincoli e limiti predeterminati. Si direbbe pertanto che, col protocollo d’intesa del 31 maggio di quest’anno, le parti sociali abbiano inteso rimediare all’evidente rachitismo della regolazione del contratto nazionale di lavoro: mentre le 14 righe del punto 1 dell’accordo di due anni fa contenevano poco più di un annuncio del proposito di fissare in maniera certa e trasparente i criteri di legittimazione della partnership contrattuale a livello nazionale, il protocollo dedica al medesimo tema un’attenzione che smentisce la sensazione che mi ha accompagnato negli ultimi tempi, e cioè che questa figura di contratto collettivo avesse i giorni contati. I 2/3 del nuovo testo hanno infatti la proprietà dei regolamenti esecutivi di principi che, enunciati in astratto, hanno bisogno di analitiche norme d’attuazione. Che adesso finalmente sono arrivate.

Le componenti costitutive del protocollo d’intesa sono due. La prima attiene alla misurazione della rappresentatività sindacale e dunque contiene le disposizioni la cui applicazione consentirà (entro un termine che purtroppo non viene precisato, ma presumo ragionevolmente breve) di ridisegnare in concreto l’identikit dei soggetti contrattuali legittimati ad agire in rappresentanza dei lavoratori. La seconda arricchisce le regole del processo di formazione del contratto nazionale, disponendo come potrà aprirsi e come dovrà concludersi.
È solo evidente quindi che, dovendosi considerare acquisito il principio introdotto dall’accordo interconfederale del 2011 per cui la legittimazione a negoziare a livello nazionale si lega al possesso di un minimo di rappresentatività accertata con meccanismi identici a quelli da tempo familiari al settore dell’impiego pubblico, il nucleo più innovativo, come tale destinato a polarizzare l’interesse degli osservatori, risiede non più nell’interrogativo “chi rappresenta chi”, bensì nella ridefinizione delle modalità con cui agisce il rappresentante.
Al riguardo, la sobrietà regolativa delle parti sociali rasenta l’auto-censura. Non senza buone ragioni. La principale delle quali è la convinzione che l’autonomia decisionale delle Federazioni di categoria è un bene da custodire e il pluralismo sindacale un valore assoluto. Toccherà perciò alle Federazioni elaborare – per ogni singolo contratto nazionale – la piattaforma rivendicativa, comporre la delegazione trattante e stabilirne le attribuzioni. Toccherà a loro anche decidere se presentare piattaforme unitarie o non, discostandosi così dalla raccomandazione di preferire la presentazione di piattaforme unitarie che le parti firmatarie del protocollo lasciano filtrare con discrezione. Ciò che per queste ultime conta è che la trattativa non possa aprirsi se non sulla base della piattaforma presentata da Federazioni aventi nel complesso un livello di rappresentatività nell’ambito di applicazione del contratto pari ad almeno il 50% + 1, irrilevante essendo che il resto non abbia voce.
Optare per una disciplina soft, leggera e flessibile, può denotare saggezza empirica e comunque è di moda. Nondimeno, il contesto materiale in cui si svolge la fase iniziale della trattativa ha solitamente un’influenza decisiva sui successivi sviluppi e sull’esito finale. Viceversa, le parti firmatarie del protocollo si mantengono su posizioni di attendismo e self-restraint che equivalgono alla rinuncia preventiva ad orientare le dinamiche endo-sindacali.
Non diverso, peraltro, è l’atteggiamento delle parti firmatarie del protocollo in ordine al presupposto cui subordinano l’efficacia del contratto di cui siano disposte ad assumersi la paternità Federazioni aventi il requisito della prescritta rappresentatività. Vero è che il protocollo non fa sua la protervia che il legislatore dell’agosto 2011 nascondeva dietro lo schermo del consenso maggioritario dei rappresentanti sindacali come condizione dell’efficacia vincolante dei contratti di prossimità. Tutt’al contrario, dimostra di sapere che il tit. III dello statuto dei lavoratori si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentati nei confronti dei medesimi.
E si rende conto che ciò non è più consentito nel bel mezzo della più virulenta crisi che si potesse immaginare degli istituti di rappresentanza democratica, quella sindacale inclusa. Non a caso, il protocollo impone che la sottoscrizione del contratto sia preceduta da una consultazione certificata a maggioranza semplice dei rappresentati cui si applicherà il contratto medesimo, secondo modalità che saranno stabilite dalle Federazioni. Tuttavia, per quanto sia apprezzabile la predilezione verso il gradualismo e lo sperimentalismo che le organizzazioni sindacali hanno interiorizzato in sessant’anni di laborioso fai-da-te, bisogna ammettere che il protocollo somiglia ad un semi-lavorato in attesa delle necessarie verifiche e delle implementazioni, per ora imprevedibili, che in ogni categoria riceveranno i suoi punti di snodo più originali e perciò più delicati.
Dopotutto, l’effettività è il prerequisito del diritto sindacale. Anche per questo, soltanto a rodaggio avvenuto del modello di comportamento prefigurato dal protocollo, si potrà condividere l’opinione che esso contiene validi spunti per ideare una cornice legislativa capace di rivitalizzare un sistema contrattuale tenuto insieme, finora, da poco più che spago e chiodi.

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